Quando Takeshi Obata e Tsugumi Ōba hanno terminato il loro capolavoro Death Note lasciando il nome di L avvolto nel mistero mi sono infuriato. Ero divorato dalla curiosità, in quanto una parate del manga era proprio incentrato su quel mistero, fondamentale per determinare la vita e la morte dei protagonisti.
Quando poi, in una manovra di marketing spudorato, l'editore ha pubblicato, all'interno di un numero speciale, una busta chiusa con all'interno il nome del genio investigativo, non stavo più nella pelle. Appena letto il nome però, mi sono sentito afferrare per le budella da un senso di vuoto.
Mi sono reso conto di una cosa: quel nome era solo una sequenza di lettere, una delusione difficile da descrivere a parole.
L'unica spiegazione che mi sono dato è stata: la conoscenza del mistero ha distrutto il senso di fantastico, il Sense of Wonder. Il sapere ci aveva tolto quella cosa che ci faceva stare con gli occhi persi nel vuoto a fantasticare su quale potesse essere e quale modo si sarebbe potuto utilizzare per scoprirlo. La mia ignoranza era il magnete che mi teneva incollato alle pagine.
Il mistero, e tutto ciò che esso comporta, prende nella nostra mente uno spazio grandissimo, fatto di fantasia, di "se" e di "forse". La conoscenza nel caso della narrativa prende il minuscolo spazio che occupano quelle poche lettere.
Inutile dire che ci si sono drizzati i capelli in testa quando la BBC ha minacciato di rivelare il nome del Dottore, diventato il mistero portante di un'intera serie di Doctor Who.
Larga parte della grande narrativa si basa sul "non detto" e non solo allo scopo di creare misteri che tengano incollati alle pagine (o allo schermo, nel caso…), prendiamo come esempio un grande maestro dell'orrore: H.P. Lovecraft. Precorrendo i tempi (anche troppo, considerato che nella sua epoca è stato piuttosto bistrattato) aveva già intuito che ciò che si teme di più è ciò che non si conosce: i suoi lavori sono permeati di "non detto" in maniera tale da fare in modo che sia la fantasia del lettore stesso a lavorare per lui e a creare la parte peggiore degli orrori che Howard ci ha tramandato.
Il potere delle parole è grande, noi lettori lo sappiamo. Ma altrettanto grande è quello delle "non parole" di un testo. Prendiamo come esempio un campo completamente diverso: la descrizione.
In apparenza in questo frangente le parole sono necessarie più che in ogni altro, in quanto una persona o un paesaggio necessitano di essere tratteggiati, nella mente di chi legge, dal testo stesso. La realtà è ben diversa: se l'autore spendesse parole su parole nel descrivere ogni minimo dettaglio del vestiario di un personaggio e del suo aspetto fisico, crolleremmo addormentati all'entrata in scena del terzo personaggio del cast. I veri maestri della narrativa non spendono mai troppe parole nelle descrizioni, proprio perché sanno che sarà la mente di chi tiene il testo fra le mani a fare il grosso del lavoro: una regola d'oro nel delineare un personaggio è proprio quella di comunicare al lettore solo ciò che caratterizza davvero un personaggio, che lo distingue dagli altri e mai più di tre particolari. Il resto, come detto e ripetuto, ci penserà la nostra fantasia a riempirlo. Perché in fondo non è questo che speriamo, ogni volta che portiamo a casa un nuovo libro? Non speriamo forse che ci faccia volare con la fantasia in posti lontani, vedendoli attraverso gli occhi di persone straordinarie?
Perché quando tutto è delineato alla perfezione, seza spazio per errori o altri punti di vista, allora è il senso del fantastico a rimetterci. E pensate che tristezza sarebbe la narrativa, se fosse privata della fantasia, e che mondo grigio sarebbe se non ci fossero le storie nate da essa.
La prossima volta che leggerete un testo, allora, non pensate solo alle parole che trovate sulla carta, ma anche a quelle che non ci sono.
E voi che ci dite? Avete letto o visto qualche opera che fa del "non detto" il suo punto cardine?
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