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A Complete Unknown: venite qui intorno, gente | Recensione

James Mangold cerca di raccontare una delle figure più importanti del Novecento, inquadrandone solo una parte

Bob Dylan. Uno dei più grandi cantautori della storia americana, celebrato come un’eroe non solo dalla sua generazione ma anche da quelle successive, unico nel suo campo ad aver vinto il Premio Nobel per la Letteratura e potremmo proseguire con l’aneddotica. James Mangold e Timothée Chalamet uniscono le forze per raccontare questo personaggio in A Complete Unknown, che abbiamo visto in anteprima per questa recensione. Seguiteci in questo viaggio negli anni ’60 per scoprire com’è andata.

A Complete Unknown non è un biopic in senso stretto

C’è un problema fondamentale nel momento in cui scegli di raccontare la storia di Bob Dylan: ti manca la struttura drammatica. Non ha avuto (fortunatamente per lui) la parabola di un’ascesa rapidissima e tragica conclusione che hanno avuto altri dei suoi anni, come Jim Morrison o Jimi Hendrix. Non c’è una storia di un gruppo che si forma, raggiunge il successo e poi si scioglie come per i Beatles. Forse si può costruire un percorso di ascesa, successo, caduta in secondo piano (mai nell’oblio) e ritorno, ma è forzato.

Perché Bob Dylan non è una figura come le altre. Sì, come molti della sua generazione è partito dal basso, ha vissuto l’origin story da “arrivare nella big city con una chitarra e poco altro”, ma non è mai andato via. Non a caso, i suoi concerti fanno parte di un cosiddetto Never Ending Tour, soprannominato così perché è cominciato nel 1988 e non si è (quasi) mai fermato. E nel frattempo Dylan ha vissuto tante vite diverse.

Lo sa bene Todd Haynes che nel 2007 ha cercato di affrontare la stessa impresa di James Mangold e per farlo ha spezzato il suo protagonista in sei personaggi differenti. Nessuno era Bob Dylan ma tutti erano una parte di lui.

Mangold ha dovuto trovare un altro espediente quindi per inquadrare il cantautore nel suo film. Non ne realizza un biopic in senso stretto, perché non ne racconta tutta la vita, ma solo una parte. Quella che va dal suo incontro con Woody Guthrie al leggendario Festival di Newport del 1965, quello della “svolta elettrica” in cui Dylan sconvolse il mondo lasciando le sue origini folk e aprendosi a uno stile nuovo, tra le proteste dei puristi nel pubblico.

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Ma al contempo è un biopic tradizionale

a complete unknown recensione bob dylan

Se questo film da una parte sceglie di approcciarsi a una vita troppo ampia e ricca da poterla raccontare concentrandosi solo su un frammento chiave di essa, dall’altra riprende a piene mani quella che è la struttura del biopic tradizionale. Lungo tutta la pellicola possiamo ritrovare gli elementi che caratterizzano questo tipo di film, sia a livello macroscopico che microscopico.

Abbiamo le umili origini del protagonista, la gavetta dietro le quinte e l’arrivo al successo. Gli amori in cui riflettersi e crescere ovvero la fittizia Sylvie Russo e l’iconica Joan Baez. La figura paterna di Pete Seeger (interpretato da un Edward Norton sempre in forma), che lo porterà al successo e gli farà da mentore. Ma anche tutti i cliché sulla nascita delle canzoni, sugli aneddoti intrecciati alla trama, sui dialoghi resi probabilmente più elaborati di quanto fossero in realtà. Ma raccontare una storia è anche questo.

a complete unknown recensione bob dylan

E forse l’aspetto più “da biopic” di A Complete Unknown, impossibile da non citare in una recensione, è il lavoro fatto da Timothée Chalamet. C’è stato un impegno straordinario nell’entrare a pieno nei panni del cantautore, riuscendo a farci dimenticare che a incarnarlo è uno degli attori più celebri del momento. In particolare va celebrato il lavoro fatto sulla voce, per restituire in pieno quel timbro così particolare di Bob Dylan. Speriamo che lo stesso livello sia mantenuto anche nel doppiaggio italiano.

Abbiamo così, in una confezione semplice e “digeribile”, uno sguardo a una delle figure più complesse del Novecento. Un ritratto che è sì una celebrazione, ma con qualche stoccata in buona fede: è difficile uscire dalla sala senza pensare che Bob Dylan in fondo era un po’ una… “persona difficile”.

A Complete Unknown, la recensione: un film ben realizzato che non diventa mai fenomenale

a complete unknown recensione bob dylan

A Complete Unknown ci chiama a raccolta e ci invita a viaggiare nel tempo, negli anni ’60 prima che fossero gli Anni ’60. E riesce nel suo intento di esplorare il percorso di Bob Dylan da ventenne scapigliato appena sceso dalla corriera per incontrare il suo idolo a stella di un genere musicale, fino al giorno in cui deciderà di “tradire” quel mondo e sconvolgere tutti di nuovo.

James Mangold, forse in cerca di una vittoria dopo l’accoglienza non esaltante di Indiana Jones e il quadrante del destino, sceglie di non complicarsi la vita, creando un buon film che non ha velleità rivoluzionarie, ma cerca solo di stare in equilibrio. E affida parte del carico a un Timothée Chalamet che sta entrando nella fase della sua carriera in cui vuole conquistare il suo (primo?) Oscar. Difficilmente questo sarà l’anno giusto, ma la sua performance è indubbiamente da celebrare.

A Complete Unknown è il risultato di tutto questo. Un’opera che è indubbiamente ben realizzata, che ci fa vivere bene l’atmosfera di quegli anni e che ci permette di conoscere meglio il suo protagonista. Non ha l’ambizione di essere il film definitivo su Bob Dylan e infatti non lo è. E probabilmente non lo avremo mai. Ma in fondo ci serve davvero?

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Autore

  • Mattia Chiappani

    Ama il cinema in ogni sua forma e cova in segreto il sogno di vincere un Premio Oscar per la Miglior Sceneggiatura. Nel frattempo assaggia ogni pietanza disponibile sulla grande tavolata dell'intrattenimento dalle serie TV ai fumetti, passando per musica e libri. Un riflesso condizionato lo porta a scattare un selfie ogni volta che ha una fotocamera per le mani. Gli scienziati stanno ancora cercando una spiegazione a questo fenomeno.

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