La Mostra del Cinema di Venezia prosegue con uno dei film più attesi, Maria di Pablo Larraín, ormai abituale frequentatore del Festival, che ancora una volta ci offre un ritratto femminile carico di pathos, fragilità e dolore. Dopo Jackie (2016) e Spencer (2021), tocca alla Divina Maria Callas, soprano che ha fatto innamorare il mondo intero, compreso l’armatore e imprenditore Aristotele Onassis, il “colpo di grazia” sentimentale e mentale per la donna.
Larraín, come già nelle sue precedenti opere, ma questa volta superando se stesso, compone una lirica struggente tra follia, disperazione e malinconia. Un film capace di toccare corde profonde, delicate, e pericolose. In questa recensione cercheremo di spiegare perché Maria si avvicina tanto all’essere il capolavoro più grandioso di questo cineasta.
Maria di Pablo Larraín: la struggente storia della Divina privata della sua voce
Sembra che tutti i grandi artisti debbano pagare un prezzo per il loro inestimabile talento. Col passare del tempo, ciò che potrebbe essere considerato un dono si trasforma in una condanna, una maledizione che conduce inevitabilmente alla rovina. Anche la storia di Maria Callas non sfugge a questo tragico destino.
Gli ultimi anni della sua vita furono segnati da un profondo dolore, disperazione e sofferenza, legati alla tragica perdita della sua voce, quella stessa voce che aveva costituito la sua identità, carriera e passione. Dopo una carriera straordinaria, che l’aveva resa una delle più grandi cantanti liriche di tutti i tempi, Callas iniziò a sperimentare un progressivo declino vocale già negli anni ’60. Questo deterioramento non rappresentò solo un problema tecnico, ma fu una perdita esistenziale che colpì profondamente la sua vita personale e professionale.
Nel tentativo di affrontare il dolore, Maria Callas si rifugiò nei farmaci, in particolare nel Mandrax, un sedativo-ipnotico dai potenti effetti. Questi, inizialmente usati per combattere l’insonnia e l’ansia, divennero una costante nella sua vita quotidiana, portandola a un punto in cui la linea tra realtà e illusione iniziò a sfumare. Questa dipendenza la fece precipitare in uno stato di alienazione, isolandola dal mondo esterno e rendendola incapace di distinguere il vero dal falso. Larraín parte proprio da qui.
Nell’ultima settimana di vita di Maria, la osserviamo mentre cammina per le malinconiche strade autunnali di Parigi, quasi fosse un’anima sospesa nel tempo e nello spazio, perdendosi in una realtà fatta di fittizie interviste, film e autobiografie. Un percorso nella memoria che prende forma attraverso quella dipendenza che, come un gioco di prestigio, diventa “umana”.
In Maria, Larraín ci racconta la crisi di un’artista
Larraín, in quella che più che un film sembra una vera e propria opera lirica in quattro atti, si focalizza sull’incapacità di Maria (interpretata da Angelina Jolie) di esprimere nuovamente la sua arte come aveva fatto in passato, conducendola verso una profonda crisi interiore.
Ce la mostra fin da subito spezzata, con il cuore e l’anima in mille pezzi, attraverso un primo piano sempre più ravvicinato in bianco e nero, mentre la sua voce è un crescendo di rabbia e dolore, e il suo sguardo diventa sempre più lucido, anticipando un finale che vi lascerà attoniti e prosciugati.
Quella della Divina è un’estenuante lotta con sé stessa, con il senso di abbandono e fallimento, lontana dai riflettori di quel palco a cui aveva donato tutta sé stessa. La fine della relazione con Aristotele Onassis (interpretato da Haluk Bilginer), che aveva amato profondamente, esacerba ulteriormente il suo tormento, poiché Onassis desiderava possederla, ponendola in una gabbia dorata, come un uccello esotico.
Le uniche anime capaci di comprenderla e assisterla, quasi come due genitori stanchi ma ancora pieni d’amore, sono il fedele autista e maggiordomo Ferruccio (Pierfrancesco Favino) e la domestica Bruna (Alba Rohrwacher). Questo rispecchia perfettamente l’archetipo degli uomini potenti e ricchi come Onassis, desiderosi di avere tutto e subito, come bambini capricciosi, senza obiezioni e a qualsiasi costo.
Un incontro, un intreccio
È drammaticamente ironico come le vite di Maria e Jackie si incontrino e come Larraín le faccia intrecciare ancora una volta, raccontando la storia da un altro punto di vista, ma cercando sempre di fuggire dallo stereotipo della “donna oggetto”, il trofeo da esibire e possedere. Una tacca sulla cintura, come se fosse una medaglia al valore.
Se ci pensiamo, solo due anni fa, Andrew Dominik fece lo stesso con Marilyn Monroe in Blonde, concentrandosi sull’idealizzazione da parte del pubblico, che deumanizza l’idolo e lo mette al servizio delle folle adoranti. Anche Larraín tocca questo tema, ma lo affronta dal punto di vista opposto, esplorando il senso di dovere verso un pubblico e il necessario bisogno di distaccarsi, anche se accompagnato da un ingiustificato senso di vergogna.
Alla ricerca di sé e del Lato Umano
Andando avanti in questa recensione di Maria di Pablo Larraín, colpisce il tema della perdita di sé stessi attraverso la perdita della voce. Nel fluire dei giorni, mai definiti con precisione, ma piuttosto dilatati in un tempo sospeso, Parigi diventa una cornice per un vero e proprio memoriale, dove i fasti del passato vengono evocati attraverso l’uso di luoghi iconici come La Scala o New York, contrapponendosi all’esigenza di ritrovare una voce che esce con fatica dalla gola, grattando, raschiando, aggrappandosi disperatamente a momenti felici (pochi) e drammatici (troppi).
Larraín e lo sceneggiatore Steven Knight costruiscono un collage scenografico ed emozionale dettagliato e preciso, lirico in ogni sfumatura, muovendosi tra colori tenui e accesi, tra bianchi e neri, con momenti nevralgici che ci permettono di orientarci nella vita di questa tragica eroina.
Contrariamente, la Maria interpretata da Angelina Jolie si muove spaesata, in bilico tra l’essere la grande Diva una volta adorata per la sua straordinaria capacità di comunicare emozioni profonde attraverso la musica e l’essere una bambina sola, vulnerabile, incapace di ritrovare la sua voce, non solo in senso letterale, ma anche metaforico.
L’assenza di quella che era stata la sua forza vitale, unita alla solitudine e alla fragilità emotiva, la conduce verso una spirale di disperazione da cui non riesce – e forse non vuole – riprendersi completamente, fino ad arrivare a un tragico, quanto prevedibile, destino.
La sfida del regista
Pablo Larraín affronta ancora una volta una delle sfide più grandi: rappresentare per immagini i momenti più oscuri e vulnerabili di una delle più grandi icone femminili. Senza cadere in quella che potremmo definire “pornografia del dolore”. Il declino fisico e mentale messo in scena non è mai abusivo, morboso o ricattatorio.
È un film che ci pone di fronte alle vulnerabilità dell’essere umano, al di là della ricchezza, della fama, del successo o dell’insuccesso. Saper cogliere le sfumature dell’animo umano, avvicinandoci a un personaggio così simile a noi, richiede premura ed empatia. Se non siamo in grado di accogliere e custodire con rispetto questo dolore, il problema non è di chi ha diretto, scritto o interpretato il film, ma nostro.
Maria di Pablo Larraín: un canto umano che punta all’Oscar?
La protagonista quasi assoluta di questa pellicola è indubbiamente Angelina Jolie, finalmente in sala con un ruolo che rende giustizia a una bravura a lungo rimasta in ombra. Proprio come Maria Callas disse una volta:
Un brano non dovrebbe mai essere perfetto, andrebbe interpretato ogni volta in modo diverso.
Angelina Jolie non cerca di essere una copia perfetta della Callas, ma ne abbraccia l’anima, le insicurezze, la fragilità, i limiti, i difetti. Tutti quegli elementi che, in fondo, ci rendono umani e quindi più vicini gli uni agli altri. Forse proprio per questo, Maria di Pablo Larraín è il film che più si avvicina al grande pubblico, quello che potrebbe essere maggiormente amato e apprezzato, perché drammaticamente reale nella sua complessità simbolica.
Angelina Jolie si presta meravigliosamente, vola alto e incanta, fino a diventare un’unica essenza, come un canto che riempie, scuote, spezza e commuove. Ci mette a nudo, soli di fronte allo specchio, con le nostre fragilità, chiedendoci, come dice la sorella Iakinthi Callas (Valeria Golino), di essere buoni con noi stessi e di non colpevolizzarci per qualsiasi cosa abbiamo mai fatto.
Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher a fianco della protagonista
Accanto ad Angelina Jolie, non possiamo non menzionare la bravura di Pierfrancesco Favino. Il suo dolce e apprensivo Ferruccio è un colpo al cuore: un padre e un fratello al tempo stesso, un po’ come la Bruna di Alba Rohrwacher, che parla un linguaggio tutto suo, segreto, attraverso l’uso del pianoforte spostato da una parte all’altra alla ricerca della posizione perfetta, un rituale che serve come escamotage per posticipare il confronto con la propria voce e le responsabilità verso se stessi, come smettere di prendere le pillole, mangiare, volersi bene, vivere.
La difficoltà del vivere che, nelle ultime note, ruggisce forte e chiaro, arriva dallo schermo dritta verso di noi, colpendoci senza pietà. Maria Callas, la Divina che aveva incantato il mondo con la sua arte, ormai ombra di sé stessa, consumata da un dolore profondo e irrisolvibile, lascia dietro di sé un’eredità tanto straordinaria quanto tragica. Forse, è proprio questo canto umano che porterà Maria e i suoi interpreti verso l’Oscar.
Rimani aggiornato seguendoci su Google News!
Da non perdere questa settimana su Orgoglionerd
🇻🇦 In che senso il Vaticano ha una propria mascotte in stile anime?
🏛️ Francesco Totti diventa Gladiatore a Lucca Comics & Games
🦇 Oltre i villain e i supereroi: intervista a Lee Bermejo
📰 Ma lo sai che abbiamo un sacco di newsletter?
📺 Trovi Fjona anche su RAI Play con Touch - Impronta digitale!
🎧 Ascolta il nostro imperdibile podcast Le vie del Tech
💸E trovi un po' di offerte interessanti su Telegram!