Giovanni è un ragazzino undicenne che vive col fratello e col padre nella periferia di una città sbiadita e esangue, fra una ferrovia abbandonata e il muro duro e ruvido di un vecchio acquedotto. Fra le pareti spoglie della loro casa, il padre, forse pazzo e la cui natura oscilla fra bestia e cosa, lascia morire il fratello di fame e di freddo. Il silenzio e la violenza si dilatano fra di loro, come fra tutti gli uomini: spettri che vagano sulla terra, morsa dal gelo e scolorita dal vento. Passano gli anni, dieci, e anche il padre muore. Così Giovanni, che porta il nome del prediletto fra gli Apostoli di Cristo, scacciato dalla casa dai fratelli del padre, inizia il suo vagabondaggio in una città morta, fra uomini morti, testimone di una nuova Apocalisse. Nel suo vagare senza meta in un mondo sempre meno riconoscibile, lo accompagna una voce che gli racconta la follia che ha colpito l’umanità e che lui racconta a sua volta a chi gli presta orecchio, senza capire davvero le parole che sente e che ripete.
[amazon_link asins=’8842824291′ template=’ProductCarousel’ store=’gamspri02-21′ marketplace=’IT’ link_id=’1c53c6d8-f804-11e8-a79f-99d75be4a32d’]Come i quattro cavalieri dell’Apocalisse, viene prostrato prima dalla solitudine, poi dal freddo, dalla fame e infine dalla malattia. Ma Giovanni sopravvive e continua a vagare fra le macerie dove si aggirano cani randagi, ripetendo ciò che la voce gli dice. Gli parla di miseria e di violenza, di morte e di sangue, di fame e di freddo. Gli parla di guerre e omicidi. Di desiderio e di perdita. «Racconta di vendette prive di odio. Racconta di unghie e denti bianchi pronti a spezzarsi negli urti e sanguinare. Racconta di una ferocia che è organismo e linguaggio. Corpi che salgono e sgusciano.» Come Amleto, Giovanni si ritrova a dover mettere ordine in un mondo fuor di sesto e privo di senso e la parola è lo strumento necessario, perché è nominandole che le cose acquisiscono significato.
Giovanni non giudica e non biasima, non cerca spiegazioni e non trova perché. Egli è testimone neutro, mosso da una specie di fredda passività, dove la vita si specchia senza pietà e senza giudizio morale; né compatimento né biasimo. Ripete le parole di una voce che solo lui sente, la stessa voce che racconta a noi le vicende di Giovanni. Finché Giovanni smette di ripetere e dice altro. «Sussurra e incespica sulle parole come se non gli sembrassero vere. Ogni tanto si zittisce e riprende con un abbozzo di sorriso. Mi racconta tante cose. Dice tutto al vuoto.» Ascoltando l’altro e ripetendo la sua storia, Giovanni ha ritrovato la parola. Perché «noi parliamo per non essere inghiottiti dal buio». E perché smettere di ascoltare significa compiere un passo verso l’abisso, verso la voragine.
Voragine è una cronaca schietta e ruvida, raccontata quasi interamente al presente indicativo. Man mano che ci si addentra nella narrazione e nella follia degli uomini, man mano che la decadenza avanza e il senno si assottiglia, si passa dalla vividezza dei luoghi dell’inizio che possono risultare familiari, seppur descritti in un’ottica straniante, verso una sempre maggior dissoluzione del paesaggio, sempre più rarefatto, trasfigurato e trascolorato. Un paesaggio postatomico che ricorda un po’ quel mondo sbirciato dalla finestrella da Clov in Finale di partita di Beckett e, proprio come i personaggi del drammaturgo irlandese, anche Giovanni non ha praticamente passato.
La rarefazione degli spazi e delle relazioni fra gli uomini, della loro alienazione, è resa attraverso una struttura sintattica altrettanto scarna, ridotta all’osso. Il periodare è esclusivamente paratattico e procede per giustapposizione di frasi brevi e brevissime. Non esistono elementi più importanti, niente all’interno della storia è subordinato ad altro. Liberato da ogni estetismo, lo stile di Andrea Esposito è asciutto, crudo e violento come la materia di cui tratta. La punteggiatura si limita al punto fermo e a qualche rara virgola nei pochissimi discorsi diretti. L’incedere di Giovanni, il furore della malattia e della follia, i morsi del gelo, la violenza e i rumori dei corpi battuti e mutilati sono resi attraverso la reiterazione e il ritmo sincopato e claustrofobico della sintassi, secca e concisa, che esaspera il lettore, comunicando l’ansia e la melanconia del personaggio.
Voragine è un’ottima prova di scrittura e un grande esordio.
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