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The Evil Within: l’Orrore, l’Orrore!

Il genere videoludico dei Survival Horror negli ultimi anni è stato un po' bistrattato: abbiamo visto Resident Evil, Silent Hill e il più giovane Dead Space andare alla deriva per poi perdere la propria identità e trasformarsi in semplici Action, dove ormai l'orrore e la tensione degli episodi classici erano solo un vago ricordo.
Proprio per questo, quando mesi fa Shinji Mikami (il papà della serie del Virus T e Dino Crisis, per dirne solo un paio…) ha annunciato di essere al lavoro su un nuovo gioco che avrebbe riportato il genere Survival Horror agli antichi fasti, le aspettative di mezzo mondo sono esplose e pure le nostre hanno fatto un bel botto.
Quindi potete immaginare con che stato d'animo ci siamo immersi in The Evil Within, gioco tanto atteso, pronti a rivivere il batticuore, la tensione e l'ansia che i primi giochi di questo genere ci hanno donato, sulle vecchie consolle.
Eppure…
Per tutta la durata del gioco abbiamo sentito la mancanza di qualcosa, come se cucinando il nostro piatto preferito avessimo dimenticato un ingrediente. 
Mancava qualcosa che all'inizio non siamo ben riusciti a identificare, e solo alla fine abbiamo realizzato cosa fosse: l'orrore.
Sì, sembra un'assurdità dire che a un'opera come questa manchi proprio questa sensazione, che dovrebbe esserne la colonna portante, ma a nostro parere è così. 
Non fraintendiamoci: il gioco ha tutto il necessario per essere un prodotto godibile come se ne sono visti pochi ultimamente, a partire da una resa grafica stupenda anche su consolle di "vecchia" generazione fino a un gameplay che, pur non avendo nulla di innovativo, riesce nella difficile impresa di proporre situazioni differenti e che non annoiano mai. Anche la trama non è male, dipanata a poco a poco nella follia e nel caos di cui il gioco è intriso.
Ma allora come fa a mancare la sensazione attorno alla quale dovrebbe girare tutto il gioco?
Proprio a causa del feeling che il gioco ci ha lasciato (o che non ci ha lasciato, in realtà) ci siamo messi a riflettere su cosa significhi “Orrore” all'interno di un mezzo complesso come i videogames sanno essere. Impresa non facile, in quanto si tratta di una forte emozione che, per sua stessa natura, cambia da persona a persona.
Cominciamo dalle basi: chi di noi non ha mai vissuto attimi di puro ribrezzo, qualcosa che facesse accapponare la pelle? Ognuno è preda di qualche tipo di fobia: chi ha il terrore dei ragni, chi dei pagliacci, chi di parlare in pubblico. Prima o poi tutti proviamo quella sensazione che taglia le gambe, che costringe a far ricorso alla pura forza di volontà per poter andare avanti e affrontare la cosa, la situazione o la persona che ci hanno scatenato quest'emozione primordiale. Ma trasmettere tutto questo attraverso le pagine di un libro o lo schermo di un videogioco è tutta un'altra questione.
E dire che il neonato di Shinji Mikami ha tutti gli elementi tipici della categoria: orrende mutilazioni, grida disperate, spettri, scienziati psicopatici, deformità di ogni tipo e sangue come se diluviasse. Ma allora cosa c'è che non va?
La prima risposta che ci è venuta in mente è: il dosaggio.
Sin dai primi momenti dell'azione i nostri schermi sono stati riempiti da carrettate di corpi morti, geyser scarlatti da cui escono mostri urlanti, situazioni folli e tonnellate di episodi inquietanti. Così tanti elementi horror che poco dopo l'inizio del gioco hanno smesso di impressionare, per diventare una sorta di “sfondo” che ci ha accompagnato per tutta la durata dell'opera.
Potrebbe essere una semplice questione di sensibilità personale, ma crediamo che anche i più impressionabili (che non si sarebbero mai affacciati su The Evil Within, ma tant'è…) dopo un'esposizione prolungata a tutto questo “horror” sviluppino una certa insensibilità verso di esso. Semplicemente diviene la norma e smette di fare effetto, non importa se ci viene mostrato il protagonista che scivola verso un tritarifiuti gigante, o se gli oggetti iniziano a muoversi da soli in giro per le stanze.
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The Evil Within ci ha fatto capire che l'orrore è tanto più efficace quando si pone in netto contrasto con la normalità, quando ci sorprende con la guardia abbassata, quando abbiamo il tempo di pensare a cosa stia succedendo attorno a noi, o quando ci sentiamo al sicuro. Se tutto è “horror” allora nulla è “horror” e le nostre percezioni si comporteranno esattamente come fa il nostro naso, che dopo qualche minuto di esposizione a un determinato odore smette di percepirlo tramutandolo, come detto prima, in un semplice sottofondo.
Le citazioni (e autocitazioni di Mikami, a dire il vero)  horror famosi e ormai entrati nell'immaginario come Texas Chainsaw Massacre, The Ring, lo stesso Resident Evil e molti altri, ci hanno fatto sorridere piacevolmente, ma questo non riesce a oscurare un altro difetto del gioco: la prevedibilità di molte scene. Fin troppo spesso ci siamo trovati ad anticipare ciò che veniva mostrato di ben più di qualche secondo. Questa sorta di banalità di cui sono intrise molte scene è uno dei motivi per cui è difficile farsi prendere dalla tensione e dalla paura in questo gioco: l'utilizzo di cliché (accanto alle citazioni che sono tutt'altra cosa) così intenso porta via il senso dell'ignoto, il vuoto in cui si ha paura di guardare perché si teme cosa potrebbe esservi, radice fondamentale di ogni vero terrore.
Ma non può essere tutto qui, in fondo ci sono tonnellate di giochi strapieni di queste cose, che ci hanno fatto stare con gli occhi spalancati in cerca del minimo segnale di pericolo, il cuore che batteva prima di aprire ogni porta. Siamo stati in pena perché non sapevamo cosa il nostro alter-ego virtuale avrebbe trovato oltre quelle soglie.
E proprio il protagonista è uno dei problemi principali del gioco: il detective Sebastian Castellanos è un uomo che si fa notare per la propria apatia. Mentre attraversiamo villaggi abitati da mostri, ospedali psichiatrici in cui sono stati compiute massacri, corridoi pieni di macchine mortali eccetera, Sebastian non batte ciglio. Quando assiste all'orrida trasformazione di un innocente in una creatura da incubo si lascia sfuggire un pallido “oh mio dio” e niente più. All'inizio, quando siamo entrati al Beacon Memorial Hospital e ci siamo trovati davanti a una vera e propria strage (Sebastian non estrae nemmeno la pistola, nonostante gli agenti attorno a lui siano scomparsi), abbiamo pensato “Bé, in fondo è un detective. Sarà un duro abituato ad avere a che fare con la morte” ma a ogni passo la verità diveniva più evidente: Castellanos affronta anche le situazioni più folli in tranquillità, come se quella situazione, che va ben oltre il limite del reale, fosse una scampagnata e nulla più.
Come possiamo noi giocatori percepire la paura, temere che accada qualcosa e sentirci in pericolo se il protagonista per primo non ci trasmette niente? I mostri non spaventano lui che li ha davanti, figurarsi noi che li guardiamo filtrati attraverso uno schermo. Perché il terrore, per sua natura è contagioso come una malattia: vederlo negli occhi di un altro essere umano è in grado di stringerci lo stomaco e gelarci la colonna vertebrale.
Quando un protagonista è profondo, caratterizzato e “umano”, noi ci rispecchiamo in lui, noi ci caliamo nei panni di questi protagonisti fino a quanto manteniamo il pad fra le mani, tant'è che ci riferiamo alla nostra controparte digitale con la prima persona singolare: "Sono morto" "L'ho ammazzato" "Sono caduto" eccetera. Ma un legame tra noi e il detective Castellanos non è proprio riuscito a germogliare.
Che dire? Ne è passata di acqua sotto i ponti dal primo giorno in polizia di Leon Kennedy, quando lui e Claire Redfield si sono imbattuti nei primi zombie della loro carriera ed erano spaventati da una Raccoon City che degenerava sempre più nel caos. Sono state le loro  reazioni e le loro emozioni a farci affezionare a loro e agli altri protagonisti dell'epoca d'oro dei Survival Horror, che nonostante i pochi poligoni e i pixel ben in vista erano davvero umani.
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