Oggi è la Giornata Internazionale delle Donne nella Scienza.
Ma non è solo la giornata di Marie Curie e Ada Lovelace, è un’occasione per alzare la testa dalle ricerche e dalle tesi, guardarsi negli occhi a vicenda e chiedersi cosa significa essere una donna nella scienza, oggi. È anche la nostra giornata, e vi spiego perché.
Mostri sacri e persone normali
La storia della scienza sembra spesso una storia di predestinazione. Quando si è studenti, e si leggono sui libri le vite e le imprese dei grandi che hanno fatto la scienza, è molto difficile empatizzare, sentirsi uno di loro. D’altronde sembra quasi blasfemo sentirsi parte della stessa cricca di chi ha inventato il calcolo numerico, mentre stai lì con il libro davanti e il cellulare in mano a guardare i cani su Instagram.
Inoltre, sembra opinione praticamente unanime che queste persone siano nate con dei talenti straordinari per quello che hanno poi compiuto nella vita. Talenti genetici, manifestati in età precoci con abilità assurde, tipo Jack Jack degli Incredibili.
Si dice che il maestro delle elementari di Gauss (quello del teorema della divergenza e altri banalissimi concetti) un giorno abbia chiesto alla classe, come esercizio impossibile per farli stare zitti e buoni qualche ora, di sommare i primi 100 numeri. Pare che Gauss abbia inventato una formula per farlo, e ci abbia messo pochi minuti. Fa 5050 per la cronaca.
Ecco, per chi alle elementari sapeva contare fino a 10 come tutte le persone normali, e ha poi sviluppato una certa passione per la scienza che lo ha portato ad intraprendere lo studio di una materia STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics), capite che risulta un po’ difficile sentirsi rappresentati nella storia della scienza. Risulta complicato guardare in alto, su quella nuvoletta dove sonnecchiano Albert Einstein e Marie Curie, nella loro genialità perfetta, e pensare che ci sia qualche speranza, per noi, di diventare così.
La scienza era un gioco per maschi
Le cose, per le ragazze, si fanno ancora più complesse. Queste famose donne nella scienza non si sentono molto nominare a scuola, e non se ne trovano più di tante sfogliando i libri di testo. In parte perché la scienza è stata principalmente un gioco per maschi, e in parte perché alle loro storie si tende a non dare la voce che meritano. Vi sembrerà sorprendente, ma quando sogni di diventare una grande scienziata, e il numero di grandi scienziate che incontri nel tuo percorso scolastico è, arrotondando, zero, la cosa può tendere a creare un po’ di angoscia.
E anche noi, alla fine, cerchiamo di giustificarci il fatto di non aver bisogno di queste figure.
Avere successo in una materia STEM richiede moltissima fiducia in sé stesse, e la profonda convinzione di non essere nulla di meno dei nostri colleghi maschi. Tuttavia, a volte, questa sicurezza di sé si traduce nel negare i problemi che ci affliggono, le ingiustizie che dobbiamo vivere. Nel nome del “non sentirci inferiori” finiamo per sopportare molto di più, senza lamentarci, perché lamentarsi è da femmine.
E questa storia dei modelli di riferimento ne è l’emblema. “Non mi servono modelli femminili, posso ispirarmi ad Einstein e a Tesla come a Marie Curie, il genere non è importante” è una frase che spesso sento dire alle mie colleghe scienziate o aspiranti tali, con l’atteggiamento di chi, caparbio e determinato, non vuole accettare di essere in una situazione di svantaggio, e cerca comunque di trarne il meglio.
“Fake it until you make it”, si dice in inglese, e a volte si riflette in questo fingere che le disparità e le difficoltà non esistano, nella speranza che ignorarle le cancelli.
È invece importante avere delle persone a cui fare riferimento, con le quali si può empatizzare. È importante sentire le storie di chi ha vissuto delle situazioni simili alla tua, o molto peggiori, e le ha superate, provando a tutti che ne era in grado, e ricordandoti che lo sei anche tu.
È importante, come dicevamo prima, soprattutto in un campo come quello della scienza, dove alla fine tutti si sentono piccoli piccoli rispetto a “chi ce l’ha fatta”, dove la mancanza di un innato talento per la matematica sembra una condanna a morte, e dove le probabilità di successo sono, di fatto, esigue per tutti.
La Giornata Internazionale delle Donne nella Scienza
È per questo che giornate come questa sono importanti. Non per ricordare le grandi scienziate dell’800 che, pace all’anima loro, non se ne fanno niente del nostro ricordo. Ma perché quel ricordo serve a noi. Perché Marie Curie ha preso due Nobel mentre le maggiori menti del mondo ritenevano che lei non meritasse nemmeno di studiare, e l’importanza di questa cosa ha tutto a che vedere con il fatto che fosse una donna. La sua vicenda è nel passato, sembra antica, lontana, sepolta, ma la mentalità che la ha generata è tutt’altro che nella tomba, e dobbiamo essere pronti ad affrontarla.
Molto spesso ce la passiamo peggio dei nostri colleghi uomini, e non c’è nulla di male ad ammetterlo. Perché, come ci insegna la migliore scienza, quando c’è un problema non serve ignorarlo, bisogna andare a fondo.
Oggi è una giornata per alzare la testa dai nostri computer, e riconoscere i successi delle ragazze nelle materie STEM che oggi stanno facendo la storia della scienza. È una giornata per riconoscere la nostra caparbietà, la nostra determinazione e tutte le qualità che ci rendono brave in quello che facciamo. È anche una giornata per guardarsi negli occhi e supportarsi a vicenda, invece di soccombere alla competitività di un ambiente che sa essere spietato. È una giornata per ricordare le grandi scienziate del passato, ma non solo per i loro Nobel e i loro risultati strabilianti, ma perché ci ispirano ad essere migliori, e raggiungere risultati migliori anche nel loro nome.
Sì, è improbabile che qualcuno di noi sia il nuovo Newton, o la nuova Rosalind Franklin, ma possiamo dare il nostro contributo. Quello scientifico , anche soltanto con i nostri errori, all’avanzamento della conoscenza umana. E quello umano, cercando di rendere l’ambiente in cui studiamo o lavoriamo un posto più fertile per tutti.
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