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Dodici: gli zombie di Zerocalcare

Zombie ovunque! 
Prima o poi sarebbe successo, visti i continui riferimenti che Zerocalcare ha lasciato qua e là nei suoi vari fumetti, ci aspettavamo che qualcosa di interamente zombesco sarebbe arrivato.
E infatti…eccallà.
Dodici.
La personale apocalisse zombie del nostro fumettista romano di Rebibbia che parla con gli armadilli e con una fissa per i personaggi femminili di Robin Hood della Disney.
Non Roma infatti ma Rebibbia è capitale affettiva e respiriamo un po’ l’aria di quel quartiere, famoso ormai per il Mammuth oltre che per il carcere.
Quartiere popolare e ultra campanilistico, con un grande orgoglio di appartenenza; ma a Milano queste cose non ce le abbiamo e le possiamo capire solo fino a un certo punto.
Chi mai si metterebbe a scrivere sui muri in giro per la città “Villlapizzone regna”? In rivalità con chi? Forlanini magari?
Quindi facciamo che l’analisi sociologica la lasciamo perdere e parliamo della cricca composta da Zero, Secco, Cinghiale e una ragazza con lo spadone di Cloud Strfe.
(Personalmente m’è mancato l’amico Supplì, peccato)
Dodici è di certo meno intimista di Un Polpo alla Gola e più scanzonato della Profezia.
Rebibbia è stata colpita da una fulminante epidemia e tutti sono diventati zombie, tranne pochi sopravvissuti trincerati nei propri appartamenti, tra cui appunto Calcare e co.
La nuova arrivata, la ganza del gruppo, calata da Roma Nord è restia a raccontare la sua storia. Non sappiamo come sia finita dall’altra parte della città, lontana dalla sua zona, possiamo solo immaginarci che l’abbia portata lì qualche turpe segreto.
Se vi siete presi una cotta per il Secco sarete contenti, questo è il suo momento, la fa da padrone, è l’eroe e il paladino, mentre l’amico Calcare finisce a fare il comprimario.
Ma ci sta perfettamente, è nel suo stile. Il novellatore che racconta la storia non può essere sempre il protagonista.
Finché ai quattro è offerta una possibilità di uscita, grazie al Tibia che organizza una pullmanata per scappare fuori dalla città, come reclama il classico plot del genere da cui attinge anche Walking Dead (citato qui a manetta) imprescindibile punto di riferimento per il nostro.
(serve che specifichiamo che come insegna Romero, zombie si diventa solo per contagio? Appunto, non scherziamo).
Davvero da apprezzare lo stile narrativo con le tavole a inframmezzare l’azione come un flusso di coscienza che fanno la serenata a Rebibbia, così come le classiche (ormai) battute alla Calcare con citazioni nerd annesse.
Però dovendomi sbilanciare devo dire che il buon vecchio Zero che ti ammazza dal ridere è rimasto nelle storielle del lunedì.
Qui Michele Rech cerca di fare qualcosa di molto diverso dalla profondità che veniva ricercata nelle due opere lunghe precedenti, questo è il suo personale gioco di stile con gli zombie a Rebibbia.
A questo proposito mi è venuto in mente quel gioiello di B-movie dei Manetti Bros, Zora la Vampira, ve lo ricordate?
Era quel film dove il conte Dracula, affascinato dalle veline e dal varietà di prima serata della tv Italiana, aveva lasciato la Transilvania ed era emigrato verso l’Italia.
Per finire poi in un centro sociale, girando nei quartieri più popolari di Roma, con i rapper e graffittari buoni contro i vampiri cattivi.
L’horror e i quartieri popolari di Roma sembrano abbastanza filare d’accordo e i risultati sono spassosi e con una certa poesia.
Come il quartiere reagisca a minacce sovrannaturali, che siano dei fighetti vampiri o dai popolari zombie, lo lasciamo a voi da scoprire ma per lo meno abbiamo capito che quelli di Rebibbia sono tosti.
Non sono mai stata in questo quartiere ma io a Calcare ho creduto, ci credo che se arrivassero gli zombie dalle sue parti le cose andrebbero come le racconta lui.
Insomma alla fine un po’ di innamoramento ti viene, ma d’altra parte Rebibbia se le sarà guadagnate tutte queste lettere d’amore
Ah, giorni di Rebibbia / che io credevo persi in una luce / di necessità, e che ora so così liberi
[…]
in ogni pagina, in ogni riga / che scrivevo, nell'esilio di Rebibbia, /  c'era quel fervore, quella presunzione, / quella gratitudine.

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