“Frangar, non flectar”.
Tre parole latine che oggigiorno chiunque ha avuto la possibilità di sentire e addirittura, in qualche momento di coraggio, nominare.
Per chi ignorasse l’etimologia della lingua significa letteralmente: “mi spezzerò ma non mi piegherò”. Un messaggio forte, chiaro e indicante un'integrità morale che non cede davanti a nessuna minaccia o pericolo. Un messaggio importante e giusto, soprattutto ai giorni nostri.
Innumerevoli sono state le opere cinematografiche che hanno veicolato questo messaggio inserendolo come morale portante del film e l’ultimo della serie (ma non per questo meno importante) è Unbroken, film prodotto e diretto da Angelina Jolie , uscito in Italia il 29 gennaio passato.
In opere di questo genere non è tanto la trama che spinge a vedere (facilmente intuibile dai due minuti scarsi del trailer) quanto una presa salda che riesca ad afferrarti e ad accompagnarti per tutta la durata del film, dimostrandoti ciò che non ti è dato vedere, ma ciò che gli attori sono in grado di esprimere e comunicare.
Unbroken racconta la vera storia di Louis Zamperini, figlio di italiani immigrati in America e atleta olimpico che durante la seconda guerra mondiale, combattendo per il suo paese, affronta dapprima un incidente aereo seguito da quarantasette giorni di deriva in mare e poi due anni di segregazione in un campo di prigionia giapponese.
Se a questa già incredibile storia si aggiunge la sceneggiatura firmata “fratelli Coen”, la fotografia di Roger Deakins (Le Ali della libertà, Fargo, Non è un paese per vecchi) e la colonna sonora di Alexandre Desplat (Il discorso del Re, Argo, Grand Budapest Hotel) allora ha tutte le carte in tavola per colpire e fare centro.
E per colpire colpisce, ma fare centro proprio no.
L’intero film si concentra esclusivamente sulla figura di Louis (interpretato da un ottimo Jack O’Connell) e sul suo spirito incrollabile: quello spirito che gli ha permesso di salire sul podio olimpico, di sopravvivere in mare e di non cedere mai durante la prigionia.
Il film pone subito in chiaro chi è il buono e chi è il cattivo senza motivare le ragioni del secondo e ingigantendo quelle del primo (anche se in quel periodo FORSE c’era la guerra).
Contrappone ai soldati americani, belli e coraggiosi, i sadici carcerieri giapponesi che non si rivelano altro che crudeli macchine di tortura. E tra tutti loro Louis si impone come esempio magistrale di volontà e tenacia, sopportando una lunga lista di abusi e crudeltà al limite delle sopportazioni umane.
E più noi pensiamo che la fine della guerra si avvicini, con conseguente liberazione di Louis, più la Jolie ci stupisce regolandoci nuove torture e punizioni grottesche, arrivando infine all’immagine iconica del martire che solleva la barra di metallo sostenuta solo dalla sua determinazione.
Il messaggio che passa è chiarissimo: “Io non mi spezzo”.
E seppur la colonna portante venga realizzata e il fine passi, si ha comunque quella sensazione di incompiutezza, quell’insipidezza di una zuppa senza sale, quella morale che si perde strada facendo e dopo centotrentasette minuti ci si chiede solo perché?
Perché l’unica sensazione che ci rimane sia solo il sollievo per la fine del film e non altro?
La regista spinge all’inverosimile il concetto di base, obbligandoci a pensarlo, forzando troppo sulle altre caratteristiche, come un cavallo coi paraocchi che corre solo dritto senza essere in grado di vedere oltre.
In conclusione Unbroken è coinvolgente e a tratti profondo, con un’ottima colonna sonora e una meravigliosa fotografia, con punte di splendide scene, ma che non è in grado di spaziare da quell’unico tema d’infrangibilità e si perde strada facendo.
La morale iniziale si infrange con l’incontrastata vittoria americana e la sconfitta nipponica.
Vi capita di vederlo? Guardatelo, piacerà a molti, ma non dimenticate di tenere allenato il vostro occhio critico.