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Oscar 2023: ha davvero ancora senso lamentarsi? 

Se n’è parlato troppo, se n’è parlato male ma, come ogni anno, gli Oscar se ne vanno lasciando dietro di sé quell’inutile scia di malcontento “collettivo” che non porta mai a delle reali riflessioni sullo stato dell’industria, preferendo molto di più il tifo da stadio. Cerchiamo di andare oltre le mere tifoserie, comprendiamo invece cosa le vittorie degli Oscar 2023 ci hanno realmente detto sull’industria e sugli spettatori.

L’inutilità delle polemiche legate agli Oscar

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Oscar 2023: vincitori e polemiche

Perché non ha senso lamentarsi degli Oscar e dei suoi vincitori? Bella domanda, eppure non molti hanno la risposta a questa semplicissima domanda visto che, ogni anno, siamo di fronte alle stesse inutili e futili discussioni. Sì, perché in fondo il nocciolo della questione è esattamente questo: la solita solfa. Il solito malcontento dettato dalla fantomatica dittatura del politicamente corretto urlato da spettatori e critici (mah), senza mai portare avanti davvero un’analisi, senza porsi le giuste domande, senza mai alzare il livello della conversazione e porre del giuste riflessioni, ma tutti a sfoderare fuori una gran voglia di litigare e magari anche cambiare bandiera rispetto l’opinione di qualche mese prima. Quanta pazienza!

Mi chiedo anche per cosa esattamente si sta “litigando” o ci si sta lamentando, peccando di un’ipocrisia assurda. Si, perché sinceramente mi fa davvero molto ridere il giorno dopo la notte degli Oscar, e qualche manciata di giorni in seguito, vedere tutto questo fervore per un evento come gli Oscar accusato di essere surreale, paradossale, una pagliacciata, una buffonata, una cafonata… quando poi il furore alla base di queste critiche, tanto dalla stampa di settore (una piccola parte, per fortuna, non siamo tutti così) non sia poi così diverso. Il bue che dà del cornuto all’asino? Eh si, non siamo poi così lontani da questo detto.

Il tutto viene costantemente ridotto a mero tifo da stadio, come se gli Oscar fossero davvero una competizione! Ma da quando? Forse un tempo, ma di acqua sotto i ponti ne è passata e pure tanta. Come si fa a mettersi realmente a discutere su di un premio assegnato da oltre 9000 membri dell’Academy, che più e più volte hanno ammesso di non vedere tutti i film, delegare a volte figli o nipoti sui film di animazione, guardare giusto una manciata di minuti, votare l’unico film che hanno effettivamente visto?

Gli Oscar, come giustamente ha detto il buon Hugh Grant, il cui humor inglese e cultura sono stati compresi da pochi, sono la fiera della vanità. Non è molto di più che un mettersi in mostra, sperando di vincere per poter avere un budget un po’ più grande o una stagione di ingaggi più ricca, per il futuro. Nessuno ambisce al Premio Oscar come premio di valore; o almeno, non più. Per questo ci sono i Festival, i cui premi sono decisamente più meritocratici o per lo meno assegnati da una giuria ristretta di 10-12 membri al massimo, di nazionalità diversa che, almeno, lo sforzo di vedere tutti i film del Concorso (e perfino qualcosa in più) lo fa. E ne parlano, ne discutono, si confrontano, ragionano. Tutto questo con novemila persone, ma anche solo la metà, non sarebbe affatto possibile! E già questo dovrebbe dircela lunga sulla validità del valore di questo riconoscimento.

Non è nemmeno la Cerimonia in sé per sé, ma quanto tutto ciò che viene prima: la vita del film in sala o ai Festival, la promozione, la campagna. La campagna di un film, un performer agli Oscar, è tutto, al pari di una campagna elettorale per le presidenziali. Non a caso di “drammi” quest’anno, legati proprio alla campagna pre-Oscar, se ne sono consumati molti. Partendo da Andrea Riseborough arrivando a Michelle Yeoh. Ed indovinate dove questi drammi si sono consumati o, meglio ancora, da dove sono partiti? I social.

Ah già, dimenticavo un altro aspetto importante: i soldi!

Che arma potentissima e meravigliosa i social… Se solo li sapessimo realmente usare!

Il Miglior Film è il miglior film dell’anno? Non esattamente.

Cover di Everything Everywhere All At Once

L’Oscar al miglior film è sempre stato un premio che fa tanto discutere, pure quando la memoria inganna e pensiamo di essere tutti d’accordo. Inutile pensare a Parasite, ci si è lamentati (ingiustamente) anche per quello e, incredibile ma vero, il “politicamente corretto” è stato tirato fuori anche lì. Credo che alla fine di tutto questo, l’unica cosa veramente chiara è che le persone non hanno ben capito cosa significhino insieme queste due parole ed ogni scusa è buona per urlare al “politicamente corretto”. Contenti voi!

Tornando al focus, è ovvio che non si abbia ben chiaro cosa sia l’Oscar al Miglior Film e lo si scambi per il miglior film dell’anno. Ma le cose non stanno esattamente così!

L’Oscar al Miglior Film è un premio dato alla produzione. Forse dovremmo chiamarlo “Oscar alla miglior produzione”, ma sarebbe poco catchy. Del resto, che cos’è un film se non l’insieme di tante persone, tanti reparti, che si uniscono tra di loro per creare qualcosa di unico? Non a caso viene chiamata la macchina del cinema, proprio perché alla base della creazione di una pellicola ci sono un insieme di elementi, ingranaggi, che lavorano assieme ai fini di produrre un film. Il film non lo fa solo il regista o gli attori. Un film comincia a prendere forma molto prima che la macchina venga messa in moto proprio da… la produzione! La produzione che si occupa di tutto il pre, il durante, il post e anche la vita del film stesso, quindi occupandosi anche della promozione, invio ai Festival lì dove necessario, scegliendo accuratamente se il Concorso o il Fuori Concorso, ed ovviamente, durante la stagione dei premi, tutta la campagna, la quale si basa soprattutto sugli Oscar: nomination e vittoria.

Il fenomeno A24

I vincitori agli Oscar di A24

Quest’anno il miglior film è stato vinto proprio da Everything Everywhere All At Once, pellicola la cui casa produttrice A24 sta letteralmente dettando un nuovo modello produttivo fatto di pellicole indie che riescono a raggiungere il pubblico più mainstream. EEAAO non è neanche l’unico film di A24. Ricordiamo anche The Whale, vincitore di due Oscar, e Marcel the Shell, candidato come miglior film d’animazione. La vera vincitrice di questi Oscar, una casa di produzione e distribuzione indipendente newyorkese che si è messa al centro del più grande palcoscenico celebrativo dell’industria cinematografica, diventando simbolo e portavoce dello storytelling moderno.

Una casa produttrice e di distribuzione il cui creatore, Daniel Katz, ha più volte ribadito che

Noi non siamo Hollywood!

Dimostrandolo più e più volte con le pellicole prodotte, portando in sala un’alternativa al mainstream senza però essere troppo di nicchia. Al centro di tutto c’è la sperimentazione, la creatività, la follia anche degli autori e delle loro storie. Nulla poi di chissà quanto nuovo. Siamo talmente saturi dalla tendenza cinematografica degli ultimi dieci/quindici anni, dove sicuramente man forte è stato dato anche dalle piattaforme e dalla visione bulimica di qualsiasi prodotto, che ci siamo scordati come negli anni ’90 ciò che fa oggi A24 lo facevano Miramax, Foxsearchlight e Orion Pictures.

New York è il loro simbolo. Si, perché il cinema indie nasce proprio lì, a differenza di Los Angeles, città degli angeli caduti e dei sogni, dei grandissimi soldi e dei blockbuster. La grande magia di Hollywood completamente spazzata via da chi, il cinema, lo fa anche un po’ perché ama ancora farlo. Per carità, si è tutti grandi squali e ormai alla favola del vivere per passione non ci crede più nessuno. Del resto, la stessa A24 si è dimostrata essere estremamente furba, attenta, picchiando al momento giusto, vendendolo al meglio delle sue possibilità. Sì sì, vendendo. Ma con la grande differenza di incentrare tutto su suoi artisti, una scuderia di talenti conosciuti e sconosciuti che riesce ad essere la combinazione perfetta tra la massa e la nicchia.

In questi anni, con una scalata fatta in pochissimo tempo, il lavoro svolto da A24 è stato realmente incredibile e continua a macinare successi uno dietro l’altro, diventando un vero e proprio brand. Quante volte vi sarà capitato di sentire o dire addirittura: “Ah, si vede che questo è un film A24”? Molto probabilmente tante, proprio perché la casa produttiva lavora con l’obiettivo di creare una firma sempre più riconoscibile, lasciando la totale libertà espressiva ai suoi artisti (a volte anche troppo). È una specie di marchio di fabbrica, ormai sempre più presente. Parliamo di pellicole che hanno sempre una cifra stilistica più autoriale, l’uso originale del mezzo cinematografico, spesso e volentieri ricorrendo proprio al genere, non proprio così apprezzato dall’Academy.

Il logo di A24

E l’evoluzione, crescita ed ascesa di A24 è simbolo che qualcosa sta cambiando proprio nella richiesta da parte dello spettatore e, probabilmente, anche nell’industria stessa, già severamente provata dagli anni di pandemia. Ma forse, forse, è anche sintomo di una necessità, che va oltre il target di vedere messe in scene nuove e più sperimentali, dando uno spazio maggiore a emergenti o artisti più anticonvenzionali.

Tra le tante cose dette durante questi giorni, ben pochi hanno fatto lo sforzo di andare oltre la sterile polemica e lamentela, portando il discorso sul piano dell’analisi dell’industria cinematografica allo stato attuale. Nell’anno dei grandi Blockbuster salvatori del cinema (inteso come sala), come Top Gun: Maverick ed Avatar: La via dell’acqua, guarda caso è proprio un film come Everything Everywhere All At Once a vincere. Un film che si mette a confronto con le grandi major, gioca con i generi, ci parla di multiverso meglio di chiunque altro (con buona pace della Marvel), avendo la furbizia di giocare con le proprie regole, con lo stile folle dei The Daniels che già si erano estremamente distinti in Swiss Army Man. E lo fa con una storia semplice, umana. Un film con uno sguardo ampio, sicuramente non perfetto, ma che denota perfettamente dove stiamo andando in questo momento. Capisco che però i post egoriferiti, pronti a sminuire un film unicamente come “bello” o “brutto” costino meno fatica.

E comunque, lo stesso Spielberg ha più, più, più volte speso parole di lodi ed incoraggiamento nei confronti dei The Daniels, con vero e proprio endorsement.

Oscar non politicamente corretti ma politicamente ipocriti

Una scena da Niente di nuovo sul fronte Occidentale

Come si fa a non gioire per questa vittoria? Non è sicuramente il miglior film dell’anno e se c’è una cosa molto diversa rispetto alle ultime edizioni degli Oscar, è stato invertire la tendenza del dare un po’ tutto a tutti. Quest’anno si è tornati indietro di qualche anno. Alla fine i film vincitori sono sostanzialmente due: Everything Everywhere All At Once e Niente di nuovo sul fronte occidentale. Preferivo la tendenza precedente, a meno che non ci si trovi letteralmente di fronte al capolavoro assoluto. È indubbio che un McDonagh, per esempio, fosse superiore in scrittura ai The Daniels, la regia di Spielberg, così come la colonna sonora di Babylon di gran lunga migliore, e memorabile, rispetto a Niente di nuovo sul fronte occidentale. Qui, però, si dovrebbe aprire anche un altro discorso: le candidature.

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Tendiamo sempre a guardare la punta della montagna e mai la base, un po’ come i vari “poche donne candidate” (perché quante ne sono state prodotte, esattamente?) o i vari “oscar so white”; ma i veri problemi quest’anno (come ogni anno) sono arrivati già nelle candidature. La completa assenza del cinema di genere ad eccezione dei The Daniels, per dirne una, come la fotografia e il sonoro per The Northman, la colonna sonora e fotografia per The Batman, così come la sceneggiatura e regia per Jordan Peele e il suo Nope. La sceneggiatura non originale un completo disastro. Come si possono candidare film come Top Gun: Maverick e Glass Onion in quella categoria, e lasciare fuori She Said, per esempio, o Pinocchio. La vergognosa assenza in regia di Sarah Polley o Baz Luhrmann. Tornando al Pinocchio di Del Toro, completamente snobbato se non per il Miglior Film D’Animazione, portando avanti i tantissimi pregiudizi dell’Academy nei confronti dell’animazione. Letteralmente uno dei migliori film dell’anno, ben superiore a tanti altri con eccessive candidature, privato di poter careggiare in categorie principe come fotografia, scenografia e lo stesso miglior film.

E poi, la follia più grande di tutte: la totale assenza di Park Chan-Wook.

Una scena di She Said

Urliamo all’Oscar politicamente corretto o, peggio, corrotto quando gli Oscar sono da moltissimi decenni politicamente ipocriti. Fingono di avere uno sguardo al futuro e vengono accusati di favorire i temi forti, l’inclusione (che comunque, ce ne sarebbe da dire anche qui su come il termine inclusione venga usato in modo dispregiativo da fin troppe persone), quando l’unica vera cosa che favoriscono gli Oscar sono film comodi. Ecco, sì. Forse da questo punto di vista la vittoria di Everything Everywhere All At Once dovrebbe davvero stupirci, perché tutto è questo film meno che un film comodo, per quanto poi il tema alla base della pellicola dei The Daniels è talmente universale da essere estremamente semplice.

Pensando proprio alle scelte comode fatte generalmente dall’Academy, come si fa a lamentarsi dei The Daniels quando è chiaro come il sole che Niente di nuovo sul fronte Occidentale è la famosa quota guerra dell’Academy in un anno molto complesso. Per carità, buon film, ma estremamente simile a mille altri ancora. Nulla di nuovo in tutti i sensi. Quante volte avete già visto quel tipo di inquadrature? La guerra raccontata allo stesso modo, banale, distaccata e priva di ferocia. Uno sguardo talmente tanto americano che questo film di tedesco non ha nemmeno il titolo, nonostante sia tratto da uno dei testi di formazione più importante. Un film fatto apposta per gli americani, un po’ come la nostra Grande Bellezza di Sorrentino.

Vogliamo andare avanti? Tàr. Se non fosse per Cate Blanchett, di questo film nessuno parlerebbe. Interessante, assolutamente. Almeno due scene valgono l’intero film, l’inizio e la lezione alla Juliard, però… In un anno in cui esce un film come She Said, un potentissimo film di inchiesta come fu Il Caso Spotlight e che affonda le mani nel marcio totale di Hollywood, sbattendoci in faccia la verità e la rivoluzione messa in moto dal movimento MeToo, davvero Tár è la dannata “quota rosa” da incensare in questo modo? No, non credo. Credo però che sia la scelta più comoda per Hollywood e l’Academy che ha per decenni chiuso gli occhi di fronte lo schifo di Harvey Weinstein, facendo vincere molti dei suoi film immeritevoli (si, parlo soprattutto di Shakespeare in love). Tra le due pellicole, a livello di regia, sceneggiatura, potenza narrativa, non c’è paragone, eppure… Tár parla del generale e lo fa lontano dall’industria hollywoodiana. Ripeto, gli Oscar sono politicamente ipocriti. E lo sono sempre stati. E la cosa che dovrebbe sorprenderci è che alla luce di questo, abbia davvero vinto un film come EEAAO.

I The Daniels e la rivincita dei Nerd

Oscar 2023 Polemiche The Daniels

Riconosco di essere molto sorpresa da questa aggressività consumata nei giorni scorsi su EEAAO, considerando quanto il film anche qui in Italia sia andato particolarmente bene ottenendo larghi consensi. Tralascio la questione americana dove la pellicola è diventata letteralmente di culto nel giro di pochissimo tempo. Forse non dovrei essere troppo sorpresa dall’atteggiamento da bulli che si è avuto nei giorni scorsi sui social, del resto ha vinto un film Nerd, fatto da Nerd, di Nerd. Per quanto The Big Bang Theory abbia reso il nerd “cool”, è sempre facile prendersela con loro.

Gli Oscar non cambiano mai, ed è vero. Credo di averlo ribadito fino alla nausea, eppure a vincere è un film diverso dal solito, quel solito di cui ci si lamenta sempre, costantemente. La banalità, la poco originalità, il mancato coraggio. Il “tuttecose” dei The Daniels, è esattamente l’opposto: originale, coraggioso, sperimentale. Si, anche semplice, perché per sorprendere non serve essere complessi, ma la semplicità può essere espressa in tanti modi e questo film non solo lo sa, ma parla molto del nostro mondo.

Un film che apparentemente ci sembra un caleidoscopio di immagini, suggestioni e suoni, ma il suo significato va ben oltre. Infatti, affronta temi profondi ed intimi come la pesantezza dell’esistenza, le difficoltà quotidiane, le costanti incomprensioni, il rimuginare sul passato e l’angoscia del futuro. The Daniels, i registi del film, riescono a trasmettere un messaggio profondo e coinvolgente che va al di là dell’apparenza visiva della pellicola. Un film che affronta la pressione sociale, il doversi confrontare con le aspettative e questo si traduce benissimo nel rapporto di Evelyn e sua figlia ma della stessa Evelyn con suo padre. In un mondo dove a 19 anni si decide di ammazzarsi per colpa dell’ansia universitaria e di non essere abbastanza per i genitori, davvero la vittoria di Everything Everywhere All At Once è così folle? Io non credo affatto. Credo che forse il nostro essere diventati poco empatici e così lobotomizzati da un cinema sempre più povero, fatto di mere esplosioni, colpi di scene e cervelli spenti, da aver perso la capacità di perderci nella semplicità di storie che, alla fine, parlano di noi.

Everything Everywhere All At Once, vincitore dell'Oscar al miglior film 2023

Inizialmente sembra che i The Daniels cerchino di trovare risposte attraverso il personaggio di Evelyn, esplorando i multiversi. Tuttavia, il “sé” di un altro personaggio diventa un altro tema centrale del film. Questo continuo cercare risposte in universi alternativi, alla ricerca di un senso e di una vita migliore, finisce per portare alla follia nichilista, generando uno stato di solitudine, incomprensione e alienazione. Questa disperazione diventa come un buco nero che inghiotte tutto. Ma la verità è che spesso le risposte sono più semplici di quanto si possa immaginare, anche se arrivarci può essere complicato. I The Daniels raccontano questo percorso come una sorta di paradossale terapia, dove la risposta “semplice” risiede nel presente, nell’immediato e in ciò che ci circonda in questo momento. Il presente è l’unica cosa che ha senso, perché è l’unico momento temporale su cui possiamo agire, anche in prospettiva del futuro, e smettere di pensare al passato. Bisogna aprire gli occhi su chi siamo e non perdere ciò che abbiamo.

Non è facile, ma cosa nella vita lo è? La pellicola dei The Daniels è complessa, folle e totalizzante, e va vista con il terzo occhio per coglierne il significato. E se se ne sono accorti perfino gli Oscar e non noi… Houston abbiamo un problema e non è certo il miglior film di quest’anno!

She Said
  • Mulligan, Carey, Kazan, Zoe, Clarkson, Patricia (Attori)
  • Schrader, Maria (Direttore)

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Gabriella Giliberti

Gabriella Giliberti, nata a Martina Franca nel maggio del 1991, è una critica cinematografica televisiva, scrittrice e content creator. Dopo essere cresciuta a cinema horror, vampiri e operetta, si è formata a Roma, specializzandosi in storia del cinema, sceneggiatura e critica. Dal 2015 al 2022, è stata penna e volto del sito Lega Nerd, ricoprendo il ruolo di capo redattrice nella sezione Entertainment dal 2019 al 2022. Collabora regolarmente sia su riviste online che cartacee, ed è presente come inviata, moderatrice e speaker presso i principali Festival e Fiere. Attraverso il suo profilo @GabrielleCroix su Twitch, TikTok ed Instagram condivide e divulga l’amore per la pop culture con la sua community e pubblico di appassionati. Ha partecipato all’antologia “Emozioni da giocare” (Poliani, 2021) e “Moondance – Tim Burton, un alieno ad Hollywood” (Bakemono Lab, 2023). Da sempre appassionata di mostri, attualmente è a lavoro su diversi progetti che riguardano la rappresentazione del mostruoso nella società. “Love Song for a Vampire – Etologia del Vampiro da F.W. Murnau a Taika Waititi” (Bakemono Lab, 2023) è il suo primo libro, e non ha intenzione di smettere.

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