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La Zona D’Interesse: tra orrore, quotidianità e “video arte” | Recensione

La recensione di La Zona D'Interesse, il film "sperimentale" di Jonathan Glazer, candidato a cinque Premi Oscar.

Dopo il passaggio allo scorso Festival del Cinema di Cannes, Jonathan Glazer e il suo disturbante e feroce La Zona D’Interesse arriva anche in Italia, al cinema dal 22 Febbraio, con I Wonder Pictures, preparandosi – molto probabilmente – a portare a casa almeno una statuetta Oscar. Quasi un’esperimento di video arte che mette fin dal primo secondo lo spettatore a disagio, costretto a rivivere uno dei crimini più orribili di cui l’umanità si sia macchiata. E che, ora come ora, è più attuale che mai; ma lo fa, da un punto di vista completamente differente e inquietante. Candidato a cinque Premi Oscar, approfondiamo il lavoro di Glazer in questa recensione di la Zona D’Interesse.

C’era una casa molto carina…

La Zona Dinteresse Recensione Oscar 1

La famiglia Höß vive in quella che si potrebbe definire la villa dei sogni. Una casa grande dove accogliere una famiglia numerosa, parenti ed amici. Un doppio giardino con piscina, una serra addirittura e più pati appartati dove sorseggiare del tea freddo durante le giornate più calde.

Hedwig Höß è la regina di tutto questo e, suo marito, Rudolph, ne è il re. I loro figli crescono felici, spensierati ed insieme sembrano essere un nucleo davvero unito, di quelli che la domenica fanno picnic e nuotate al lago. Lo stesso rapporto tra Hedwig e Rudolph sembra essere complice e ironico, sebbene caratterizzato da quel rigoroso rispetto e lieve distanza reciproca dove ognuno sa di svolgere un ruolo, pensando che il suo sia quello più importante.

Ma come accade in tutte le cose troppo perfette, c’è qualcosa, una piccola anomalia che rende il tutto estremamente inquietante, grottesco… Perfino disturbante. Forse i muri troppo alti a definire il perimetro della villa? Degli spari che riecheggiano ben distinti tra le risate? Delle urla strazianti nelle ore dei pasti? Una densa coltre di fumo grigio soffocante che puntualmente ogni giorno avvolge la casa? O il rossore del cielo notturno dettato da fornaci accese? Tutte queste cose insieme.

Si, perché la villetta degli Höß non sorge in un punto a caso, ma sorge accanto al teatro di uno degli orrori più grandi della nostra storia: Auschwitz. E Rudolph Höß è letteralmente il primo comandante, oltre che un criminale di guerra e membro delle SS, del campo di concentramento di Auschwitz.

La quotidianità del male

La Zona D'Interesse

Ciò che fa Jonathan Glazer con La Zona d’Interesse è portare sul grande schermo un tema che è stato dibattuto a più non posso attraverso punti di vista differenti, porzioni di storia diversi e toni che hanno saputo spaziare con i generi, ma attraverso una prospettiva completamente nuova e, paradossalmente, anche più inquietante. 

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Glazer lavora su due fronti: la memoria collettiva e l’esperimento sociale. Nel primo caso, per quanto Auschwitz sia parte integrante del racconto, non la mette mai davvero in scena. È sullo sfondo, certo, ma noi non la vediamo mai nel dettaglio. Non entriamo mai all’interno. Non attraversiamo il campo.

Il campo, però, lo possiamo percepire. Non abbiamo bisogno di vederlo, sappiamo che è lì e sappiamo cosa sta succedendo lì. Lo sentiamo. Si, perché La Zona D’Interesse è un film da sentire più che da vedere. Sappiamo cosa sia quel fumo, quel colpo di fucile. Sappiamo di chi sono le pellicce che arrivano in casa Höß. Basta un solo rossetto trovato in una tasca per comprendere che quella pelliccia era di un’altra donna. Una donna, un essere umano, spogliato di tutto, in primis della sua dignità ed identità.

La Zona Dinteresse Recensione Christian Friedel Min

Ed è proprio attraverso il naturale rimando della mente dello spettatore che subentra l’esperimento sociale, perché Glazer ci porta nell’indifferente quotidianità di una famiglia che vive nella “zona d’interesse”, ovvero quello spazio circostante al campo destinato alle famiglie dei generali.

Il rossetto che una freddissima e superba Sandra Hüller indossa come se nulla fosse, specchiandosi con la sua nuova pelliccia, come se l’avesse appena comprata. Il suo modo di accogliere gli ospiti, far fare il giro della casa alla madre radiosa d’orgoglio per dove è riuscita ad arrivare, completamente apatica, distaccata da tutto ciò che, adiacente al suo “piccolo paradiso”, si consuma. Donne e madri come lei, bambini come i suoi figli, destinati alla sofferenza e alla polvere.

Per cosa, poi? Un’ideologia talmente tanto sfrenata e radicata da accecare, offuscare le menti, soprattutto quella di una generazione plasmata dal pensiero nazista. In questo è estremamente interessante il rapporto che c’è tra Hedwig e sua madre, venuta in visita per qualche giorno. La donna anziana, per quanto compiaciuta dal successo della figlia e dal senso di sospetto nei confronti della popolazione ebrea, al tempo stesso non riesce davvero a scendere a compromessi con quell’orrore. Non così da vicino; perché è questo il vero dramma della guerra: non così vicino. Il classico “non vedo, non sento, non parlo” che, in una situazione del genere, decade completamente e, in alcuni casi, smuove qualche coscienza. 

E noi spettatori, assistiamo inermi al dramma grottesco messo in scena, disturbati e inquietati dalla semplicità di ogni gesto, sorriso e parola, dallo scenario bucolico tipicamente tedesco in netto contrasto con il sonoro di fondo, punta di diamante della pellicola. Un punto di vista sicuramente atipico, ma non meno brutale di tanti che abbiamo già visto. Forse, persino peggio perché l’obiettivo di Glazer non è tanto riflettere sul passato quanto sul presente.

Tra freddezza e minimalismo, la regia di Jonathan Glazer

La Zona D'Interesse

Andando avanti in questa recensione di La Zona D’Interesse, capiamo fin da subito che quello di Glazer non è un film quanto più un’installazione di video arte che costringe ad una riflessione sull’attualità. La stessa casa degli Höß, le riprese statiche, la regia minimalista e la messa in scena fredda e rigorosa, definiscono in tutto la reale natura della pellicola.

Se da una parte questo esalta il senso di perturbante che aleggia per buona parte, lasciando turbati fino alla fine, dall’altra parte è anche il suo ostacolo più grande. Superato il primo momento di shock reale di fronte all’apatia manifestata da tutti i membri della famiglia, e non solo, nel trascorrere la propria quotidianità immersa nell’orrore del campo di sterminio, la pellicola di Glazer si fa ridondante.

Fino a quando la casa e gli Höß sono il punto di riferimento della storia, assieme ai suoni e “odori” provenienti dall’altra parte del muro, il regista inglese padroneggia la sua stessa storia. Ma non appena usciamo dai confini dell’idillio grottesco, ecco che si perde di mordente. La storia stessa sbanda, cambia quasi direzione. Ci ritroviamo in altri luoghi, sempre teatri di orrori, ma questa volta contestualizzati, più canonici e aderenti alla classica rappresentazione cinematografica.

Si passa dall’esperimento alla biografia su Rudolph Höß che spezza completamente il filo, l’atmosfera, la costruzione dell’incubo e di quella sensazione che porta lo spettatore a chiedersi come sia possibile che quella situazione vada bene a tutti. O, per lo meno, a chi non rischia di essere fucilato o ucciso nelle camere a gas e poi cremato. 

La Zona Dinteresse Glazer Recensione

Il cambio di registro, talvolta intermezzato da altre scene completamente decontestualizzate e con uno uso diverso della macchina da presa, a volte ad infrarossi altre volte documentaristico, spiazza, confonde, non si comprende bene quale dovrebbe essere la sua funzione. Non solo spezza la narrazione ma l’appesantisce. Il film non ha più direzione e, nonostante il minutaggio esiguo, distoglie l’attenzione e dilata inutilmente la sensazione del tempo che passa. Forse volutamente, o forse no. 

Non basta più la bravura di Christian Friedel con il suo Rudolph diviso tra ambizione, orgoglio e famiglia, così come la freddezza dei sentimenti in netto contrasto con la cenere, i discorsi distaccati nel parlare di essere umani dando loro lo stesso peso di un carico di sterco o i bambini che osservando alla finestra scene di orrore distorcono completamente la realtà e lo stesso rapporto con essa. Qualcosa si rompe nell’esperimento di Glazer, ma nonostante questo la sua efficacia nel fare penetrare l’orrore fin dentro l’animo degli spettatore, rimane intoccata.

E sebbene La Zona D’Interesse sia fedelmente collocata in un tempo storico assolutamente inciso nella nostra memoria, la sua forza risiede anche nella sua essenza drammaticamente attuale, forse ricordandoci anche con non poca brutalità quanto poco abbiamo imparato dagli orrori del passato. 

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Gabriella Giliberti

Gabriella Giliberti, nata a Martina Franca nel maggio del 1991, è una critica cinematografica televisiva, scrittrice e content creator. Dopo essere cresciuta a cinema horror, vampiri e operetta, si è formata a Roma, specializzandosi in storia del cinema, sceneggiatura e critica. Dal 2015 al 2022, è stata penna e volto del sito Lega Nerd, ricoprendo il ruolo di capo redattrice nella sezione Entertainment dal 2019 al 2022. Collabora regolarmente sia su riviste online che cartacee, ed è presente come inviata, moderatrice e speaker presso i principali Festival e Fiere. Attraverso il suo profilo @GabrielleCroix su Twitch, TikTok ed Instagram condivide e divulga l’amore per la pop culture con la sua community e pubblico di appassionati. Ha partecipato all’antologia “Emozioni da giocare” (Poliani, 2021) e “Moondance – Tim Burton, un alieno ad Hollywood” (Bakemono Lab, 2023). Da sempre appassionata di mostri, attualmente è a lavoro su diversi progetti che riguardano la rappresentazione del mostruoso nella società. “Love Song for a Vampire – Etologia del Vampiro da F.W. Murnau a Taika Waititi” (Bakemono Lab, 2023) è il suo primo libro, e non ha intenzione di smettere.

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