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The Brutalist: il (non) sogno (non) americano | Recensione

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Tra quando abbiamo visto The Brutalist in anteprima e l’uscita di questa recensione (e del film stesso nelle sale italiane) sono cambiate alcune cose. Prima sono emerse una serie di polemiche sull’uso dell’intelligenza artificiale in quest’opera, che vi abbiamo raccontato qui, e poi è diventato uno dei film più nominati a questa edizione degli Oscar. Non che la cosa ci abbia stupito particolarmente: fin dal suo debutto alla scorsa Mostra di Venezia è stato uno dei titoli più chiacchierati e celebrati. E soprattutto, dopo averlo visto, capiamo assolutamente il perché.

The Brutalist, la recensione: un film che ci porta tra le pieghe della storia

Questo film inizia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, circa un paio d’anni dopo. László Tóth è un uomo ebreo ungherese, che è sopravvissuto al campo di concentramento di Buchenwald ed è successivamente emigrato negli Stati Uniti. Qui è ospite di un cugino che si occupa di arredamento, mentre attende di poter ottenere un visto anche per sua moglie Erzsébet e la nipote Zsófia.

Un giorno l’impresa ottiene un lavoro particolarmente importante: la ristrutturazione della biblioteca di Harrison Lee Van Buren. László, che prima della guerra era un architetto di un certo successo, raccoglie la sfida e crea un progetto articolato e innovativo. E sebbene la prima reazione non sia particolarmente entusiasta, con il tempo quella biblioteca lo renderà famoso e gli permetterà di ottenere la guida di un progetto ancora più ambizioso. Un’idea complessa, in cui László metterà tutto sé stesso.

The Brutalist | Nuovo Trailer Ufficiale

È un’epopea lunga e complessa quella che Brady Corbet ci racconta in The Brutalist. Lo fa seguendo le classiche tappe del biopic, evitando i puri cliché ma ripercorrendo comunque sentieri familiari (compreso il finale). Eppure c’è una profonda differenza rispetto ad altre pellicole del genere: László Tóth, Erzsébet, Zsófia, Harrison Lee Van Buren e tutti gli altri non sono mai esistiti.

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È straniante pensarlo, perché il racconto è tanto profondo e tanto vero che viene voglia di andare a scoprire le opere di questo architetto una volta usciti dalla sala. Ripercorrere quello che è stata la sua vita e come ne abbia parlato attraverso i suoi edifici. Ma non è questo l’obiettivo che si pone The Brutalist, che piuttosto permette di dare uno sguardo lucido e ambivalente a un angolo della storia raramente indagato.

Strappare di dosso la retorica

Superficialmente questa storia potrebbe sembrare quella del sogno americano. L’uomo che parte dal nulla e con il duro lavoro, l’unione di una comunità e il supporto di figure positive riesce a emergere. Ma quello che Brady Corbet fa è andare un passo oltre e togliere da quella storia tutta la retorica e anzi renderla ancora più visibile. Fin dal primo momento, mostrandoci che l’America in cui arriva László per quanto lontana dall’inferno che ha vissuto, non è il paradiso.

È affascinante in questo che il film si concentri moltissimo su una parte della storia che è difficile da raccontare, quella degli attimi poco successivi alla tragedia e alla sopravvivenza a questa. Quando devi cercare di ripartire, di ricostruire, di ritrovare la tua strada. In un mondo che a parole è pronto ad accoglierti, ma che non è davvero disposto a rinunciare alle dinamiche del potere che ha sviluppato.

In questo senso la figura di Harrison Lee Van Buren (così come di gran parte del suo social circle) è emblematica. Un uomo ricco e generoso che si mostra progressista ed è pienamente convinto di esserlo ma che dimostra al contempo di avere ancora le radici della propria mentalità ancorate a modelli oscuri, che emergono dalle crepe della sua facciata.

E lo stesso László non è un puro. L’eroico lavoratore con un sogno, fedele alla sua morale incrollabile. Ha dei cedimenti, degli aspetti controversi, forse non dei veri e propri lati oscuri, ma sicuramente non è perfetto. La sua stessa abnegazione per il lavoro non ci è mostrata solo sotto una luce positiva, ma sfocia nell’ossessione, nella cancellazione degli affetti, nella chiusura. Uno dei tanti modi in cui questo film ci parla anche dell’oggi.

The Brutalist vola altissimo anche nella forma

Sentendo parlare di quest’opera potreste esservi intimoriti (come in tutta onestà lo siamo stati anche noi). Oltre tre ore e mezza di film, incentrati su una storia profonda ma complessa come questa, non sembrano un’esperienza facile da affrontare. Eppure, ci scivolano davvero tra le mani.

Non perché ci sia un ritmo particolarmente intenso o accattivante, anzi. Ma perché Brady Corbet (regista e co-sceneggiatore) sfrutta pienamente tutto il tempo che si prende per coinvolgerci dentro la vita di László Tóth e farci desiderare sempre di più.

Lo fa innanzitutto con una scrittura sopraffina. C’è un momento particolarmente significativo, quando László e Van Buren conversano a una festa. Quest’ultimo sta raccontando una storia e noi ci troviamo a pendere dalle sue labbra. Tanto che quando il discorso viene interrotto da un ospite che vuole complimentarsi con l’architetto, non vediamo l’ora che se ne vada per poter tornare alla conversazione.

E questo è un merito da condividere con il cast naturalmente. Adrien Brody sembra inevitabilmente sulla traiettoria del suo secondo Oscar ed è un premio meritato, anche solo per lo straordinario lavoro che ha fatto sulla propria voce.

Ma forse ancora migliore è la performance offerta da Guy Pearce, che è perfetto specchio e contraltare con il suo Van Buren. Peccato che la categoria da non protagonista quest’anno sembra essere già chiusa in direzione Kieran Culkin, perché un’interpretazione del genere avrebbe meritato dei riconoscimenti.

Il tutto incorniciato da una regia impressionante. Corbet ci accompagna in questa storia senza mai lasciarsi andare alla banalità. Più di una volta siamo rimasti a bocca aperta davanti alla complessità dei movimenti della macchina, sempre viva anche nei momenti di apparente calma.

The Brutalist merita tutte le celebrazioni che sta ricevendo

Non serve neanche entrare, in questa recensione di The Brutalist, nel discorso della complessa storia produttiva che ha avuto, del budget minimale, dell’assenza di supporto dai grandi studios. Perché questo film non è grande “considerate le difficoltà che ha superato”, ma è grande e basta. Un po’ come il suo stesso protagonista.

Difficile definire quale possa essere il film migliore di un anno, per tutti i motivi che si possono facilmente immaginare. Nemmeno gli Oscar, come sappiamo, sono immuni da errori e criticità in questo senso. Ma The Brutalist merita sicuramente di essere in questo tipo di conversazione.

Non fatevi spaventare ed entrate in questa storia. Non sarà facile, ma sarà unica.

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