Lo scorso 13 Giugno nella sale, grazie a I Wonder Pictures, è arrivato The Animal Kingdom, interessantissima opera distopica ambientata in un mondo dove sempre più essere umani nascono o si evolvono in animali, generando così una razza ibrida. Inizialmente questi individui vengono salvaguardati e analizzati col fine di essere curati, successivamente il loro destino viene segnato da scelte molto più terribili.
In questo contesto troviamo Émile, un ragazzo di sedici anni, che vorrebbe solo una tipica vita da liceale, ma d’un tratto il suo corpo inizia a manifestare i primi sintomi della metamorfosi. In un mondo che guarda alle cosiddette “creature” con odio e diffidenza, solo abbracciando la propria vera natura il ragazzo potrà scoprire ciò di cui è davvero capace.
Il regista Thomas Cailley, candidato con The Animal Kingdom a ben 12 Premi César, di cui vinti cinque, non confeziona una semplice pellicola distopica, bensì un vero e proprio trattato sull’evoluzione umana e sul suo rapporto con a natura, sul significato più viscerale della parola metamorfosi e sul tema universale della diversità. In occasione dell’uscita del film, abbiamo avuto modo di intervistare il regista.
La nostra intervista al regista di The Animal Kingdom, Thomas Cailley
All’inizio di The Animal Kingdom mi ha subito colpito la prima frase che dice François “Disobbedire vuol dire avere coraggio”. In relazione allo sviluppo della storia stessa, cosa rappresenta per te questa frase?
Ci fa capire un po’ il punto di vista che poi diventerà quello di François. Perché all’inizio lui dice al figlio, Émile, che bisogna avere coraggio nella vita. Lo dice, ma in realtà lui quel coraggio non ce l’ha, nel senso che lui è uno che obbedisce. Gli dicono di traslocare, lui trasloca, gli dicono di mettere la moglie in ospedale, lui mette la moglie in ospedale. E a un certo punto, durante il film, questa cosa man mano cambia.
Inizialmente i suoi comportamenti sono ben diversi dalle sue parole. Ma ci deve essere tutto questo percorso, tutta questa storia affinché possa alla fine fare delle scelte diverse, decidere di correre dei rischi. Alla fine vede il figlio Émile così com’è e decide anche di correre un rischio. E mi piaceva, appunto, questa frase detta all’inizio che è una frase che tutti possiamo pronunciare, ma la vera domanda è: quand’è che possiamo iniziare a disobbedire?
Un tema sentitissimo in The Animal Kingdom è la metamorfosi. Una metafora che viene universalmente usata in letteratura, nel cinema e anche nei fumetti. Penso agli X-Men che raccontano, tra le tante cose, di razzismo e dell’ipocrisia dell’America. Penso anche molto al cinema horror, soprattutto come le metamorfosi vengono associate agli adolescenti; ad esempio i coming of age come Carrie – Lo sguardo di Satana oppure di Regan de L’esorcista. Per te, cosa rappresenta effettivamente la metamorfosi?
La metamorfosi in realtà è sempre esistita dalla notte dei tempi, anche come arte, perché troviamo già nelle grotte preistoriche questi personaggi, queste figure ibride. Uomo e animale. Quindi non è assolutamente qualcosa di nuovo, ma quello che adesso ci può interessare nel nostro periodo storico ci ricorda in qualche modo che anche noi apparteniamo a qualcosa che abbiamo voluto praticamente dimenticare, che abbiamo dimenticato perché l’essere umano ad un certo punto ha tracciato una frontiera teorica fra se stesso, fra di noi e la natura, come se non appartenesse alla natura.
Ma oggigiorno, con tutte le varie difficoltà, l’emergenza ecologica, ecc. è giunto il momento di oltrepassare questa frontiera che è stata creata dall’uomo, perché bisogna ricordarsi che condividiamo con gli esseri viventi, con il vivente, la stessa ascendenza. Abbiamo in comune questa cosa! Pertanto, in questo dovremmo più interrogarci, su come si può vivere con la diversità.
Parlando proprio di diversità, secondo te perché siamo così ossessionati così ossessionati dal “curare il diverso”? Anche perché io spesso mi domando, ma cos’è che ci rende davvero normali? Perché ciò che è normale per me magari non lo è per te.
E diciamo che questa è proprio la questione centrale di tutto il film. All’inizio si tratta di questa voglia che hanno di curare la malattia. Poi si arriva a voler imprigionare, a voler mettere da parte i diversi e poi si arriva con l’escalation, anche a voler distruggere. È stata questa l’evoluzione alla quale abbiamo assistito nel film, come la società ha deciso di trattare la diversità.
Si sa, la società produce norme e tende a ad emarginare i diversi ed è un po’ il il compito che alcuni personaggi si sono dati. La mutazione stessa rinvia in qualche modo alla diversità e bisogna tenere in considerazione l’individuo, la società. Ritorno un po’ a ciò che ho detto all’inizio, cioè la disobbedienza. Alla fine si tratta di quello a cui François è arrivato: poter scegliere una società più tollerante.
Da un punto di vista più tecnico ed estetico, la mutazione di Émile in The Animal Kingdom non è la classica mutazione magica, bensì è molto lenta e molto dolorosa e in un certo senso mi ha ricordato quella di Un lupo mannaro americano a Londra. In questo senso, qual è stato il processo di realizzazione tuo e del tuo staff?
Nella storia del cinema la trasformazione “uomo animale” c’è sempre stata, ma spesso ci sono due filiere: da una parte si creano i mostri e dall’altra parte si creano questi grandi eroi, supereroi. I mostri sono la parte negativa, mentre i supereroi la parte positiva, ma è sempre un qualcosa di magico, molto rapido, improvviso, un po’ come la storia del lupo mannaro a Londra. Basta che la luna si faccia vedere piena per pochi minuti, ecco che il gioco è fatto. E la stessa cosa vale per i supereroi. Basta avere un costume ed ecco che abbiamo Batman o abbiamo l’Uomo Ragno.
Invece noi, nel nostro film, abbiamo assolutamente voluto perseguire il realismo e ci siamo dati una regola: ogni volta che c’è un avanzamento dell’animalità del personaggio, un elemento di umanità deve essere perso. Un esempio è Fix che quando impara a volare, smette di sapere parlare. Oppure lo stesso Émile che perde ogni tipo di coordinamento, tipo che non riesce più ad utilizzare la bicicletta.
Questa mutazione va più verso l’imperfetto ed è proprio questa imperfezione la parte che vira verso il realismo perché è transizione, mentre appunto, come dicevo, i mostri o i supereroi sono già tutti fatti, tutti perfetti. E in che modo abbiamo lavorato per ottenere questo? Lavorando sul corpo umano.
Abbiamo cercato di capire in che modo le anomalie potessero esserci su un corpo umano e abbiamo fatto un lavoro proprio attoriale con i nostri attori sul set. Certo, abbiamo utilizzato anche il trucco, le protesi, gli effetti digitali, tutte le tecnologie che erano possibili insieme. E tutto questo con lo scopo di avere più realismo ma anche più organicità. La mutazione doveva venire dall’interno, quindi partire dalle cellule all’interno del corpo e andare verso l’esterno. Questa è stata diciamo la tecnica che abbiamo utilizzato.
- Romain Duris, Paul Kircher, Adèle Exarchopoulos (Attori)
- Thomas Cailley (Direttore)
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