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Spazio: ultima frontiera

L’argomento di oggi è l’esplorazione spaziale. Lo spazio è, proprio come cristallizzato nelle immortali parole di Roddenberry che danno il titolo a questo episodio dell'Università, l'ultima frontiera, l'unico luogo dove ancora non abbiamo posato i piedi, l'ultimo obbiettivo da raggiungere. Parlo, naturalmente, di luogo fisico: se vogliamo farlo, possiamo parlare di come l'esplorazione di sè, i reami della filosofia o dell'arte e la natura umana siano frontiere che l'umanità fa e farà bene a continuare a spingere il più in là possibile, ma questo è un discorso che va al di là del mio intento, che è circoscritto alla "mera" esplorazione dell'universo fisico.
In questo senso, dunque, quello che voglio dire è che la Terra l'abbiamo già vista tutta. Non ci resta che andare altrove, cioè nello spazio. Visioni fantascientifiche che ormai fanno parte del nostro immaginario fin dalla nostra più tenera età ci hanno ingolosito con astronavi scintillanti che viaggiano più veloci della luce attraversando pieghe nello spazio-tempo, oppure, nelle opere più realistiche, congegni pensati non per dribblare le severe regole della relatività, ma per assecondarle consentendoci comunque di raggiungere l'irraggiungibile, come capsule criogeniche o navi-arca che facciano da casa a intere generazioni di persone. La tecnologia che rende possibili queste meraviglie è ancora al di là della nostra portata, eppure…eppure l'uomo è arrivato al punto in cui presto o tardi, volente o nolente, dovrà per forza di cose darsi da fare per trasformare questi sogni in realtà, perché basta avere una dose minima di visione a lungo termine per rendersi conto che presto il nostro caro pianeta non ci basterà più. Già intravedo l’obiezione: abbiamo talmente tanti problemi qui e ora, che andare a buttar via risorse preziose per far giocare quattro scienziati con razzi e robottini milionari ha del criminale. Non posso che imputare questo genere di discorsi ad una mancanza di lungimiranza, alla cattiva fede o alla mera ignoranza dei dati: sapete che attualmente la NASA dispone di un budget pari allo 0,48% del totale a disposizione dal governo americano? Non solo: sapete che negli anni Sessanta, quando la volontà politica decise di aprire tutti i rubinetti e letteralmente non badare a spese per riuscire ad andare sulla Luna, il budget della NASA comunque non raggiunse mai il 4,5%? Un investimento così irrisorio ci ha consegnato la Luna. Pensate adesso di spostare la virgola di un passo. O, per non esagerare, semplicemente di raddoppiarlo. Dite che è troppo? Vi fornirò un altro paio di dati per dimostrare che non è così: il budget per la difesa degli Stati Uniti ammonta al 19% del loro budget totale, e questo rappresenta un investimento pari a quello delle venti nazioni che seguono gli Stati Uniti in spese militari, cioè del 40% delle spese militari mondiali. Quindi prima di parlare dell’inconcepibile spreco di risorse rappresentato dagli scienziati della NASA (ma non solo: l’ESA è in condizioni simili, e non apriamo nemmeno l’argomento SETI), bisognerebbe farsi un’idea più precisa di dove davvero vanno (e vengono sprecati) i soldi.
Presenterò altri due argomenti, oltre a questo meramente ragionieristico, per sostenere la necessità (e quasi l’urgenza!) di aumentare i fondi alle agenzie spaziali. Il primo è di carattere molto concreto: finanziare agenzie come la NASA significa finanziare la ricerca in nuove tecnologie. Prima degli anni Settanta non era possibile mandare degli uomini sulla Luna, poi lo è diventato. Perché, secondo voi? Perché in quegli anni eserciti di ingegneri hanno inventato tecnologie nuove per portare a termine il lavoro. Queste tecnologie, poi, e qui viene il bello, sono entrate piano piano a far parte dell’uso comune. Forse non sapete che il velcro, le batterie, il teflon, i pannolini, i dispositivi per le diagnosi mediche come gli elettrocardiogrammi, i filtri per depurare l'acqua, le macchine per la dialisi, i tessuti ignifughi sono tutte tecnologie inventate dalla NASA come parte del progetto Apollo e degli altri. E’ sciocco quindi pensare che dare i soldi alla NASA significa finanziare attività masturbatorie di scienziati con la testa fra le nuvole che non avranno mai alcuna utilità pratica (anziché, prosegue di solito questa linea di pensiero, destinarli ad attività davvero utili qui e ora). Se questo è quello che la conquista della Luna ci ha lasciato come byproduct, non vedo l’ora di godermi ciò che ci porterà la conquista di Marte.
Il secondo argomento, invece, è solo apparentemente meno concreto. Se quello che sto per dire vi suona familiare è perché evidentemente avete letto o visto qualche discorso di Neil DeGrasse Tyson, il direttore dell’Hayden Planetarium di New York, che è la persona che riesce ad esprimere questo concetto nella maniera più lucida possibile: l’esplorazione spaziale è una portentosa forza ispiratrice per la creazione di un mindset culturale diretto ottimisticamente al futuro. Quando gli Stati Uniti hanno deciso, per le motivazioni politiche che sappiamo, di imbarcarsi nell’impresa della conquista della Luna, hanno consegnato a tutti un obbiettivo lontano, meraviglioso, ambizioso ed incredibile, affascinando migliaia di persone con le storie –vere!- di come ingegneri, astronauti e scienziati stavano trasformando un sogno irraggiungibile in realtà. In moltissimi hanno tratto ispirazione da questo e hanno deciso di perseguire una carriera in queste materie che, e lo dice un umanista, sono il motore dell’innovazione tecnologica, ovvero ciò che risolverà i problemi che abbiamo anche qui sulla Terra e che quotidianamente ci fanno avanzare verso il futuro. Oggi non c’è un obbiettivo nemmeno vagamente comparabile, e quindi la percezione da parte di tutti è molto cambiata. Oggi gli astronauti non sono pionieri che puntano verso luoghi inesplorati, ma scienziati che soggiornano più o meno a lungo su stazioni spaziali relativamente vicine a casa. Gli ingegneri aerospaziali non sono menti creative che hanno come obbiettivo studiare ed inventare soluzioni per rendere possibile l’impossibile, ma professionisti che lavorano a progetti su scala ben più ridotta e innovano in modi spesso invisibili dal pubblico. E gli scienziati non sono studiosi alle prese con valanghe di nuovi dati su mondi nuovi e misteriosi, ma incomprensibili decifratori di informazioni che non vengono capite, e quindi non affascinano. Il risultato è che il pubblico ha smesso di sognare lo spazio, se non con gli improbabili voli pindarici della fantascienza più spinta, a cui tristemente reagiamo sempre più pensando a quanto sarebbe bello se fosse vero, anziché a quanto sarà bello quando sarà vero.
Concludo con la colonna sonora consigliata di oggi, che è qualcosa di un pochino particolare. Si tratta di “Onward to the edge”, del fighissimo progetto Simphony of Science: consiste in spezzoni di interviste, interventi, discorsi di scienziati e divulgatori famosi, remixati con l’aggiunta di una base musicale per creare delle vere e proprie canzoni. La traccia che ho scelto è il video embeddato in questa stessa pagina, ed il tema è appunto l’esplorazione spaziale. Chi canta? Neil DeGrasse Tyson, ovviamente!

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Gabriele Bianchi

Lettore, giocatore, conoscitore di cose. Storico di formazione, insegnante di professione, divulgatore per indole. Cercatelo in fiera: è quello con la cravatta.

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Un commento

  1. Bravo, bisogna far capire che la ricerca in un certo campo il più delle volte produce tecnologie che trovano largo impiego anche al di fuori di quel campo.

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