Appena arriva nel Concorso del Festival di Venezia, Guadagnino cattura immediatamente l’attenzione. Come? Il suo film Queer, al centro di questa recensione e tratto dal racconto di uno degli scrittori americani più influenti del XX secolo, William S. Burroughs nonché figura chiave della Beat Generation insieme a Jack Kerouac e Allen Ginsberg, era destinato a far discutere sin dal suo annuncio.
Il progetto, accompagnato da un cast che vede Daniel Craig nei panni del protagonista Lee, ha immediatamente attirato l’interesse di fan e critici, grazie anche alla promessa di portare sullo schermo una storia omosessuale visivamente audace e scandalosa, tra droga, sesso e visioni oniriche. Ma, oltre alle scene esplicite di fellatio, nudi integrali e sesso, l’ambizione di Guadagnino risiede soprattutto nel tentativo di trasporre visivamente il sogno lucido che Burroughs narra attraverso il personaggio di Lee, senza smarrire il filo conduttore. Ci sarà riuscito? Ne parliamo approfonditamente in questa recensione di Queer.
QUEER, la recensione: la storia di un uomo schiavo di sé stesso
Queer, scritto da William S. Burroughs negli anni ’50 ma pubblicato solo nel 1985, è un’opera fondamentale per comprendere l’evoluzione del pensiero e dello stile dell’autore. Seguito non ufficiale di Junky, il primo romanzo di Burroughs, narra le vicende di William Lee, alter ego dello scrittore, mentre vaga per il Messico nella speranza di conquistare l’affetto di un giovane uomo, Eugene Allerton.
Guadagnino, seguendo fedelmente il romanzo, ambienta la storia di Queer negli anni ’50 a Città del Messico, dove troviamo un Lee (Daniel Craig) accaldato nel suo completo di lino, intento a corteggiare un giovane in uno dei locali notturni più frequentati. Lee, come i suoi amici coetanei, è schiavo e al contempo frustrato da una routine meccanica fatta di abusi di alcol e droghe e di una ricerca spasmodica di qualcuno con cui dividere poche ore di passione, anche a pagamento.
Guadagnino ci immerge in questo pellegrinaggio senza sosta, convincendoci che l’unico fulcro della vita di Lee sia questo, pur lasciando lo spettatore con la domanda su cosa faccia davvero quest’uomo per vivere. Le risposte, comunque, non tardano ad arrivare.
Il target di Lee è sempre lo stesso: giovani ragazzi poco più che ventenni, invitanti e avvenenti. Il bisogno di Lee non è solo carnale, ma quasi esistenziale, come se fosse l’ennesima dipendenza con cui convivere e fare i conti. Non si tratta solo di un semplice kink, ma anche di un “antidoto” alla vecchiaia, che però finisce per riflettere il passare del tempo.
La ricerca di una pianta miracolosa
Lee è un personaggio che rispecchia le ansie e le insicurezze di Burroughs, specialmente riguardo alla sua sessualità. Il titolo stesso è un riferimento al termine dispregiativo usato per descrivere le persone omosessuali, utilizzato dallo stesso Lee e dai suoi amici, che riflettono in modi diversi le difficoltà di essere un uomo gay di mezza età in quell’epoca.
Guadagnino, però, lo usa in senso più ampio per indicare qualcuno che si sente fuori posto, un estraneo, disincarnato, come spesso ripetono i personaggi. In particolare Lee, soprattutto dopo l’incontro con Eugene Allerton (Drew Starkey), un giovane bello, distaccato, silenzioso e respingente, che si avvicina a Lee solo quando e come vuole, spingendo l’uomo sempre più verso il baratro della solitudine e dell’esasperazione, fino a umiliarlo.
Questo porta Lee a intraprendere un viaggio in Sud America alla ricerca di una pianta miracolosa, capace di controllare le menti. Un viaggio disperato e onirico, con pochi appigli reali, che fa sorgere spontaneamente la domanda: è l’impresa ad essere folle o quest’uomo?
Queer, la recensione: sesso, sessualità e ricerca di connessione
Daniel Craig si immerge in un’interpretazione viscerale e profonda di un uomo vulnerabile, solo e alienato. Uno dei pilastri del film è la ricerca di una connessione in un mondo indifferente, incarnata perfettamente dal personaggio di Drew Starkey, con la sua espressione algida e distaccata, che acuisce il senso di inferiorità del protagonista.
È quasi umiliante per lo spettatore assistere al comportamento di Lee, che disperatamente cerca di attirare l’attenzione del giovane, così come di altri prima di lui, ostentando una finta giovinezza ribelle, un carisma che non possiede. Alla fine, ciò che Lee desidera è un minimo di comprensione, qualcuno con cui condividere un peso troppo grande, che permea la sua esistenza.
Lee è un personaggio che riflette le ansie e le insicurezze di Burroughs, specialmente riguardo alla sua sessualità. Il sesso, infatti, è il centro nevralgico di questa Città del Messico, che appare quasi come una Mecca per chi vuole vivere la propria sessualità senza il peso del giudizio.
In un periodo in cui l’omosessualità era ancora ampiamente stigmatizzata, Queer offre uno sguardo sincero e non idealizzato sulle esperienze e le emozioni di un uomo gay. Tuttavia, il tono non è militante o apologetico; Guadagnino esplora l’omosessualità come una parte della condizione umana, con tutte le sue complessità, sofferenze e desideri.
Una seconda parte suggestiva, ma traballante
Il pensiero di Burroughs si caratterizza per una visione profondamente critica della società moderna, permeata dalla consapevolezza della manipolazione operata dalle istituzioni di potere come il governo, i media e le forze dell’ordine.
Burroughs era affascinato dall’idea di controllo, non solo politico o sociale, ma anche mentale, un aspetto che interessa particolarmente Guadagnino in questo film, dove diventa un elemento centrale nella seconda parte, la più suggestiva ma anche la più traballante.
Craig e Starkey, in questa ricerca di connessione dettata dall’ossessione del protagonista, si fondono perfettamente, trasmettendo l’incomunicabilità del corpo, dell’essere, del non voler essere solo un’etichetta o un orientamento, ma qualcosa di più ampio e difficile da spiegare a parole. Un sentimento di alienazione che spesso ritorna nelle opere di Guadagnino, manifestandosi qui in una dimensione ultracorporea.
La recensione di Queer: a cavallo tra Burroughs e Guadagnino
Una premessa importante: il concetto di bello o brutto non è applicabile a questo film. Probabilmente, non ha nemmeno senso parlare di “buon film” o “cattivo film”, poiché ci sono aspetti oggettivamente visibili che rendono Queer l’ennesimo buon film di Luca Guadagnino, pur non essendo uno dei più riusciti. Questa pellicola è respingente, forse come il racconto da cui è tratta, ricca di riferimenti destinati a un pubblico colto, intellettuale e grande conoscitore dell’opera di Burroughs, in grado di cogliere i molti simboli e richiami presenti.
Guadagnino infarcisce il film di elementi simbolici legati alla vita dell’autore, creando quasi una nuova mitologia fatta di pistole, millepiedi e serpenti. Perché? Perché tutto questo ha a che fare con il sesso, il vivere la propria sessualità in un contesto fortemente alienante. Il problema è che, privi di contesto, questi elementi possono sembrare privi di senso. Non viene dato modo allo spettatore di comprendere il loro significato, lasciandolo con la sensazione che “manca un pezzo”. Il cinema non deve essere didascalico, né necessariamente accessibile, ma ciò comporta anche delle conseguenze.
Lo sguardo sensibile e delicato del regista
Queer è un film che colpisce visivamente per la composizione poetica delle immagini, per la delicatezza e la sensualità con cui Guadagnino accarezza i corpi con la macchina da presa, rendendoli desiderabili e affascinanti, erotici ma mai volgari. La sensibilità di Guadagnino è sempre un aspetto interessante, e anche in questa pellicola non delude.
Le sue immagini, così come i suoi personaggi, sono sospese, la fotografia è calda, intensa, gioca molto con le sovrapposizioni, suggerendo desideri inespressi: avvicinarsi a qualcuno, accarezzarlo, baciarlo. Un cinema fatto di sensazioni che si possono sentire sulla pelle, come il dolciastro del sudore e dell’alcol tra le lenzuola, il caldo torrido del Messico che brucia la pelle e l’umidità che appiccica la camicia alla schiena, o i brividi di freddo causati dalla febbre e dal vomito dell’astinenza. Un cinema sensoriale, come abbiamo già visto in pellicole come Chiamami col tuo nome e Challengers.
Tuttavia, non si riesce mai davvero a entrare nella narrazione. Guadagnino non solo riprende i temi di Burroughs, ma spesso disorienta lo spettatore, portandolo a chiedersi cosa stia davvero raccontando. La sceneggiatura e il montaggio risentono molto dello stile dell’autore, come la tecnica del “cut-up”, che Burroughs sviluppò negli anni ’50 insieme all’artista Brion Gysin, tagliando e riassemblando frammenti di testo per creare nuove associazioni e significati, rompendo così la linearità della narrazione.
In Queer, Guadagnino fa lo stesso, sbalzando il suo Lee da una parte all’altra, fino al viaggio in Sud America. Qui il film assume la sua forma più onirica, dove la disgregazione del linguaggio si manifesta anche per immagini. Lo stesso sogno lucido intrapreso da Lee, ormai incapace di distinguere la realtà dall’allucinazione, ossessionato dall’idea di controllo, si riflette nel percorso di Guadagnino, che gioca con forme, contaminazioni e giochi di prestigio, affascinando ma senza convincere del tutto.
Idee e intuizioni visive che non riesce a dominare
Alla fine, il film sembra non andare da nessuna parte. Lee sfugge a tutto e a tutti, ma anche Guadagnino sembra sfuggire al controllo, che a un certo punto sarebbe necessario. L’impressione è che il regista sia stato affascinato da una serie di idee e intuizioni visive, magnetiche, che risuonano fortemente in lui per le tematiche e l’influenza di Burroughs, ma che non riesce a dominare, finendo per essere schiacciato da qualcosa che non evolve mai del tutto, restando sospeso nel nulla, impedendo così l’immersione dello spettatore e dando l’impressione di voler compiacere lo spirito dell’autore, anche attraverso l’uso di una colonna sonora che, per quanto affine a Burroughs (si pensi all’uso dei Nirvana), risulta anacronistica e posizionata a caso, senza mai integrarsi realmente nella storia.
Una “pellicola snob”?
In conclusione di questa recensione, Queer è un film che, pur stregando con intuizioni visive che rendono le immagini di Guadagnino dei veri e propri dipinti in movimento, e con un’interpretazione di Daniel Craig che profuma tanto di Coppa Volpi quanto di Oscar, non riesce mai a evolversi del tutto. Troppo complesso, troppo simbolista, troppo legato a un intellettualismo per pochi, potrebbe quasi essere etichettato come una “pellicola snob”.
È un film che va visto più volte, assaporato, digerito, capito. Richiede una grande concentrazione, un pubblico reattivo ed estremamente conoscitore dell’opera di Burroughs, ma che, vittima di troppi tagli, salti, e dell’esasperazione dell’esperienza onirica della dipendenza e dell’ossessione, finisce per essere troppo pesante, troppo grande, troppo inconcludente.
Non riesce mai davvero a coinvolgere lo spettatore, che, come Lee, potrebbe sentirsi oppresso da un senso di solitudine e alienazione, dal terrore di avere un certo corpo, una certa età, una certa sessualità, in una società che continua e continuerà a etichettare e discriminare chi, alla fine, cerca solo il proprio posto nel mondo.
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