La recensione di Omen – L’Origine del Presagio, uscito nelle sale italiane il 4 Aprile e prequel del grande cult horror del 1976 di Richard Donner che, assieme a Rosemary’s Baby e L’Esorcista, segna un punto di svolta fondamentale nel cinema horror di genere demoniaco dove la componente infantile sarà sempre più massicciamente presente nel corso del tempo. Ma come ha inizio tutto questo? E perché?
La trama di Omen – L’Origine del Presagio
Siamo nella Roma del 1971, la giovane americana novizia Margaret si trasferisce in un convento della Capitale, sotto consiglio del Cardinale Lawrence, per prendere il velo. Dolce, innocente ed anche un po’ ingenua. Margaret spera solo di abbandonare la sua infanzia complessa e problematica alle spalle, portando avanti il suo cammino di fede e speranza, mentre la sua compagna di stanza Luz, cerca di scioglierla un po’, convincendola a provare l’ebbrezza della vita notturna giovanile romana prima di concedersi unicamente in sposa a Dio.
In un contesto storico rivoltoso, dove la chiesa perde adepti e l’emancipazione giovanile, la lotta verso i diritti e le pari opportunità si fa sentire sempre più forte, Margaret è travolta da una serie di emozioni contrastanti. Sensazioni che riaccendono inquietanti echi del passato e che, al tempo stesso, cominciano a mettere in discussione la sua stessa decisione di diventare suora. Ad aumentare la pressione e il senso di irrequietezza nella ragazza, ci sono due fattori: una ragazzina dello stesso convento, Carlita, che le ricorda moltissimo sé stessa da piccola e un prete che la cerca, mettendola in guardia tanto sul convento quanto su Carlita stessa, profetizzando la nascita dell’Anticristo.
Turbata, confusa e sull’orlo del baratro, Margaret si ritrova tanto a dubitare della realtà che la circonda quanto della fede stessa in cui ha sempre creduto, nonché a mettere in discussione sé stessa e ogni cosa e persona che ha caratterizzato la sua esistenza fino a quel momento.
Nel nome del Figlio
Fin dal principio ci rendiamo conto che l’obiettivo della regista Arkasha Stevenson sia quello di riprendere atmosfera e intenti dello stesso cult di Donner. Del resto, il titolo originale The First Omen, in questo senso, ci appare come una chiara dichiarazione di intenti. Stevenson, da un punto di vista stilistico, riprende la fotografia, la grana, lo stile, gli incidenti nefasti della pellicola del 1976, dando effettivamente l’illusione di assistere ad un film di quel decennio.
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Perfino la musica tenta (maldestramente) di scimmiottare la straordinaria colonna sonora, vincitrice dell’Oscar nel 1977, ad opera di Jerry Goldsmith e il suo “Ave Satana!” che, ancora oggi, ha la potenza di far tremare le viscere di chi ascolta.
Ci sono alcune piccole trovate registiche ed estetiche anche molto interessanti, giocando con un immaginario che ancora oggi continua ad avere un potere suggestivo immenso. Non a caso, se andiamo a sbirciare agli horror degli ultimi anni, religione, chiese e, in modo particolare le suore, hanno spopolato. Ma se da una parte questo risulta essere un richiamo irresistibile – tanto per “lo spettatore della domenica” quanto per l’appassionato – dall’altra parte gran parte di Omen – L’Origine del presagio, più che un film sull’Anticristo ci appare come l’ennesima pellicola con, appunto, le suore.
Un costante dejavù di situazioni e immagini che, soprattutto in queste settimane con l’arrivo di Immaculate, si vanno a fondere e sembra di continuare a guardare lo stesso film. Inoltre, sebbene lo scopo di riprendere quel tipo di universo dettato da Richard Donner non lo andiamo a ritrovare unicamente nell’estetica della pellicola ma anche nella trama, il film perde quella che è sempre stata l’essenza caratterizzante dell’originale: il bambino.
In fondo, neanche i sequel del 1978, 1981 e 1991, sono mai riusciti a replicare la potenza, l’angustia e terrore esercitati dalla pellicola originale. L’intensità di Harvey Stephens, il piccolo Damien dell’epoca, del suo sguardo, di come riuscisse a scavare nell’anima dei personaggi che lo circondavano, mettendo a disagio tanto questi quanto lo spettatore stesso, difficilmente è stata replicata in altri capitolo di questo franchise, se non con Seamus Davey-Fitzpatrick, unica nota positiva del remake del 2006 diretto da John Moore. Ed ecco che ritorniamo al punto: il bambino.
Assolutamente Arkasha Stevenson punta ad un film sulla Madre, dove il Padre come nel film originale è una presenza, appunto un presagio, un monito per incentivare al ricongiungersi con Dio, ma dove l’assenza del bambino si sente. E si sente anche tanto, almeno per gran parte del film.
Bella la fotografia, ma il film quando inizia?
Un enorme problema che il cinema, in generale, si sta ritrovando ad affrontare ormai da diversi anni è la presenza di film più o meno lunghi (in questo caso siamo nella media delle due ore), dove si sprecano più energia ad allungare il brodo anziché arrivare al fulcro, alla parte realmente interessante della storia. Anzi, in alcuni casi, ci troviamo di fronte a pellicole dove il film comincia proprio lì dove finisce, generando non solo un violentissimo senso di frustrazione, ma anche annoiando non di poco lo spettatore.
Per quanto siamo sicuri che l’atmosfera inquieta di Omen – L’Origine del Presagio riuscirà a convincere un pubblico più affamato di mainstream che di storie che possono davvero andare oltre allo schermo, è innegabile che gli eventi narrati si “sbrodolino” troppo addosso. Si tende ad esasperare questa continua sensazione di attesa, di un qualcosa che sta per accadere, accadrà da un momento all’altro, ma che alla fine non accade mai per davvero.
Non si tratta neanche più di uno discorso di suspense o mantenere sulle spine lo spettatore perché, il risultato finale, è esattamente il contrario. Se tiri tiri, tiri tiri, la corda dell’attesa, senza rilasciarla al momento giusto, va a finire che quella corda si spezza. E cosa ci resta poi?
Assolutamente nulla. Anzi, peggio: l’amaro in bocca. Purtroppo non è esente da questo neanche Omen – L’Origine del Presagio. Il secondo atto del film è un continuo perdersi tra micro-eventi la cui funzione nei confronti della storia continua ad esserci ancora sconosciuta, se non quella di spezzare, in maniera anche fastidiosa, il ritmo. Si è sempre lì, sull’orlo di una scogliera, in procinto che qualcuno si butti ma la realtà è che se non si butta mai. Vi sbeffeggia pure con tanto di “Pesce d’Aprile” per averci creduto. Il film si costruisce su una natività di cui si comincia realmente a parlare solo negli ultimi venti minuti di film, quelli realmente validi e dove l’atmosfera comincia a farsi realmente sentire.
Non una questione di fede
La pellicola prova a mettere alcuni punti fissi, semina diverse intuizioni, alcune molto interessanti come il contesto storico e sociale che porta, effettivamente, la Chiesa ad agire in una certa maniera, ma senza mai approfondire del tutto.
Il discorso sulla metafora del male avrebbe potuto dare dei risvolti molto attuali, come il cercare sempre di giustificare le opere più malvagie compiute dagli uomini come un atto governato dal maligno o utilizzando la parola mostro, quasi come se fosse un termine che possa tranquillizzare chi la pronuncia. Il mostruoso, nella nostra società, viene ancora utilizzato in maniera sbagliata.
I mostri non uccidono, gli uomini si. Il diavolo non è un punto di vista, ma una banale giustificazione nei confronti della malvagità insita nell’essere umano stesso, senza bisogno di possessioni, patti o tante belle storielle. Piuttosto, la paura nei confronti del diavolo può essere un’arma potentissima.
Un’arma che la Chiesa, di qualsiasi stampo essa sia, non ha paura ad usare per portare avanti la propria propaganda religiosa. Un’arma adoperata infinite volte, dalle Crociate alle Guerre Sante, passando per i processi alle Streghe, arrivando a compiere atti ben più feroci del Diavolo stesso. Il fine che giustifica il mezzo? A quanto pare sì, ma non chiamiamola fede. La fede è altro.
Un film che avrebbe potuto dare di più
Al netto di una sceneggiatura poco convincente, per nulla orrorifica e di una regia d’atmosfera ma priva di un vero senso d’inquietudine, andando avanti in questa recensione di Omen – L’Origine del Presagio possiamo dire che il cast è il fiore all’occhiello di questa pellicola, cominciando dalla sua protagonista Nell Tiger Free.
L’innocenza del volto gioca un ottimo contrasto con l’evoluzione di un personaggio sempre più tormentato, distrutto e spezzato ma che dalle sue stesse ceneri risorge più autonomo e indipendente. Per tutto il film, le figure femminili sembrano occupare una dimensione di ancelle e incubatrici umane. La stessa Madonna, in fondo, è un mezzo per la venuta di Gesù Cristo.
Serve nell’anima e nel corpo per una causa da servire più grande di loro. Messe al mondo per uno scopo a cui sono costrette. Il risveglio della coscienza avrebbe potuto avere uno spazio maggiore in un film che, a suo modo, vuole parlare anche di patriarcato, di come il potere venga riservato unicamente nella venuta di un figlio maschio mentre le figlie femmine non sono altro che l’ennesimo esperimento atto al concepimento di… un figlio maschio. Ed, in questo senso, trova spazio anche l’interpretazione della giovane e promettente attrice italiana Nicole Sorace che ben ci rappresenta oltreoceano.
Non da meno le interpretazioni dell’inquietante Sonia Braga o della sinuosa e seducente Maria Caballero, aggiunte del cast femminile trainante la pellicola. Non di meno importanza Ralph Ineson nel ruolo di Padre Brennan che cerca di avvisare Margaret del pericolo, ma il personaggio non è all’altezza dell’attore, appena accennato, la cui comparsa non è mai del tutto equilibrata all’interno del film.
Tra i nomi più altisonanti ritroviamo quelli di Charles Dance e Bill Nighy, nel primo caso poco meno di un cameo, nel secondo caso poco più, ma è pur sempre una gioia vederli sul grande schermo.
Arrivando verso la conclusione di questa recensione, la sensazione che si ha nei confronti di Omen – L’Origine del Presagio non è tanto quella di delusione, quanto quella di amarezza. Una pellicola che avrebbe potuto dare tanto nei temi quanto nella scrittura molto di più, alzando l’asticella nei confronti delle solite operazioni commerciali che riprendono franchise del passato con lo scopo di dargli nuova linfa pur conservando una sensazione più vintage e nostalgica, quasi di continuità.
E invece, sebbene sicuramente più interessante rispetto alla media di molti film horror sia religiosi che no, anche la pellicola di Arkasha Stevenson finisce con l’essere il classico horror dello “spettatore della domenica”, rischiando di annoiare perfino quest’ultimo con un ritmo discontinuo che sa appassionare unicamente sulle battute finali.
- Omen : Il Presagio
- Tipo di prodotto: PHYSICAL_MOVIE
- Audience Rating: G (audience generale)