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Mondiale di Calcio Femminile: l’Era delle Amazzoni

Dopo la conclusione del mondiale francese di calcio femminile, analizziamo la situazione delle atlete che per un mese hanno strappato urla e tifo

Si è conclusa l’ottava edizione del Mondiale di calcio femminile. La Nazionale Usa ha sbaragliato la concorrenza europea e si è presa l’oro di Francia 2019. Urlano di gioia quando alzano il premio. Un urlo che va oltre il semplice festeggiamento, risuonando forte per i milioni di telespettatori che hanno assistito a questa Mondiale. Un’edizione che ha sbaragliato ogni record precedente in campo femminile. Un urlo che sembra anticipare il terremoto che verrà. Mai come prima, mai come ora, lo sport femminile guarda alla controparte maschile e chiede spiegazioni sulla discriminazione di genere a cui è soggetta.

Amazzoni: guerriere ardite

In Italia il Mondiale ha misurato numeri senza precedenti, con il 31,43% di share con 4,7 milioni di spettatori; In Inghilterra la finale è stata il programma più visto dell’anno sulla BBC con 11,7 milioni; e in America, dove lo sport è professionismo puro, neanche a parlare di dati. È innegabile che oggi le quote rosa rappresentino un’ottima fetta di mercato per le emittenti televisive, per gli sponsor e per i propri paesi. Eppure c’è ancora un distacco sostanziale dalla controparte maschile (basti pensare che il montepremi per la vittoria è di 30 milioni contro i 400 incassati l’anno scorso dalla Francia). L’urlo che si alza da questo Mondiale è una sentenza: professionismo unanime nel calcio femminile, parità salariale con i colleghi uomini, stesse condizioni di viaggio/allenamento, decuplicazione del montepremi mondiale e uguaglianza di genere.

Mondiali Femminili 2019 Italia 2

È un urlo che è la somma di tante voci. La Pallone d’oro 2018, Ada Hegerberg, ha deciso di smettere di vestire i colori della nazionale finché non venga appianata la discriminazione di genere nel calcio norvegese. La schiacciasassi statunitense (nazionale imbattuta dal 2011 con 14 vittorie e 3 pareggi), prima dell’inizio del Mondiale, ha depositato una class action contro la Federazione Usa per discriminazione di genere. Salari, premi, bonus, strutture, condizioni di qualità e quantità dell’allenamento, tutto è nel mirino. Una battaglia che è continuata, partita dopo partita, per tutta la competizione, dove l’attenzione mediatica ha staccato il suo biglietto gratuito per lo stadio. Perché dove i risultati sono gli stessi, se non migliori, le condizioni rimangono peggiori.

Lo strapotere maschile

Si sa, il calcio è maschilista per natura. Ha cresciuto gli uomini sotto i riflettori, mentre nell’ombra le donne palleggiavano allo stesso modo. Una disparità che vanta anni a tripla cifra, difficile da azzerare. Non basta il fischio di un arbitro. In Italia, dove la situazione è ben al di sotto di quella professionistica americana o di alcune realtà europee, la legge n.91 del 23 marzo 1981 sancisce chi è professionista e chi no. Il calcio femminile finisce in panchina, con le atlete che sono considerate dilettanti, e come tali trattate e pagate. Poco importa che la realtà dia ragione ai numeri: in Europa il calcio maschile fattura più di quello femminile e perciò come tale ci si comporta.

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Tutto vero, se non fosse che questo Mondiale ha dimostrato come l’urlo possa essere non soltanto un’avvisaglia di paura, ma un concreto avvertimento. Alla fine non è che un pallone sulla cima di una collina d’erba: una volta dato il primo calcio, comincia a rotolare. La possibilità mediatica data in questo Mondiale alle calciatrici ha dimostrato come queste possano trasformarsi in amazzoni (dentro il campo per il gioco e fuori per gli ascolti). Il pubblico vuole il sangue e loro sanno darlo.

Mondiale: l’urlo di guerra

Rispetto alla prima edizione del campionato mondiale femminile (Cina 1991) c’è stata una crescita esponenziale. Ventinove milioni le donne che giocano a calcio, con Usa, Giappone e Nord Europa che guidano la partita del professionismo. Non abbastanza. Fare bene, ma farne poco non è sufficiente. Anche se con qualche ferita in meno l’ingiustizia rimane. Se tempo fa una donna ha dimostrato di saperci fare con un pallone al pari di un uomo, oggi chiede soltanto la stessa attenzione e retribuzione. E con questi numeri la battaglia è appena iniziata.

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Mattia Russo

Laureato in Comunicazione, Marketing e Pubblicità per farla breve, e aspirante giornalista. Curioso per natura, dalla vena impicciona, tendo a leggere qualsiasi cosa, con un'inclinazione al fantasy. Non sono uno che ama i silenzi e parlo troppo. Pace.

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