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The Gentlemen non è un film di Guy Ritchie da 8 ore (per fortuna) | Recensione

Lo stile di Guy Ritchie si riconosce in un secondo. Battute ironiche sparate a ritmo di mitragliatrice, personaggi sopra le righe, trame complicate (e perlopiù criminali), linee temporali distorte da flashback ed episodi visti in rapidi montaggi. Capite subito se un film lo ha diretto lui — e a quanto pare vale anche per le serie in streaming. Come The Gentlemen, la serie Netflix che adatta (molto liberamente) il suo film del 2019 e che vogliamo raccontarvi in questa recensione. Ma, sebbene lo stile di Ritchie si riconosca subito (anche negli episodi che non dirige lui), questa serie che arriva oggi in streaming non è un film di Guy Ritchie diviso in otto episodi. Il regista deve cambiare il suo iconico ritmo — e impiega più di un episodio a trovarlo.

The Gentlemen, recensione della serie di Guy Ritchie: questione di ritmo

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Se siete fan del film del 2019 con Matthew McConaughey, non aspettatevi un remake in versione televisiva. Ritchie ha scelto di dire addio ai personaggi e alle trame di quel film, conservando solo l’idea alla base del progetto: e se un lord inglese dovesse gestire la coltivazione e il traffico di marijuana?

Questa volta il lord è Eddie di Halstead (Theo James), che si ritrova a ereditare dal padre il suo titolo nobiliare e le sue proprietà — scontentando il fratello maggiore Freddy (Daniel Ings). Ma presto i due fratelli vengono a sapere che sotto al loro maniero c’è un’intera operazione criminale, gestita da Susie Glass (Kaya Scodelario) per conto di suo padre Bobby (Ray Winstone). Una coltivazione intensiva di marijuana che porterà Eddie a fare i conti con un sottobosco criminale che diventa più pericoloso ogni puntata.

Dai gangster sboccati come quello interpretato da Peter Serafinowicz alla calma elegante di Giancarlo Esposito (che frequenta ambienti più sofisticati de Los Pollos Hermanos di Breaking Bad, ma resta ugualmente glaciale), Eddie dovrà scendere a compromessi e affrontare sfide di vario tipo. Il tutto tenendo all’oscuro la madre Joely Richardson, anche grazie all’aiuto del guardiacaccia Geoff (un Vinnie Jones posato e amante degli animali che ruba ogni scena in cui è presente).

Due episodi per prendere il giusto tempo

Sebbene Guy Ritchie sia dietro alla telecamera nei primi due episodi della serie, abbiamo faticato a riconoscere il suo ritmo frenetico nella narrazione. Non fraintendeteci: lo stile c’è tutto. Ma le prime puntate ci avevano dato l’impressione che il regista avesse deciso di indugiarvi troppo.

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Crediti: Christopher Rafael/Netflix

L’introduzione di Eddie, per esempio, fornisce lentamente informazioni che in uno Snatch il regista ci avrebbe gettato addosso a raffica. E il momento culmine del primo episodio dura talmente tanto che il pubblico capisce quello che sta per succedere con troppo anticipo: niente effetto sorpresa, niente tensione. Insomma ci sembrava che Ritchie avesse perso il suo ritmo adrenalinico nel passaggio alle serie TV.

Quei due primi episodi, però, servono solamente a gettare le basi della scena. E finiscono con abbastanza clamore da gettarci in quelli successivi, che adottano invece un approccio più “verticale”. Ogni puntata ha una missione chiara che si conclude in quaranta minuti, procedendo a ritmo serrato e con un mix di azione e dialoghi sboccati che ci tiene incollati allo schermo. E in mezzo alle battute e agli spari, Ritchie e i suoi autori inseriscono elementi e indizi per preparare un finale dal potenziale esplosivo.

Irriverente e divertente

Una volta trovato il proprio ritmo, la serie fa quello che i film di Guy Ritchie sanno fare meglio. Come giocare con la linea temporale, interrompendo una scena sul più bello per poi farci raccontare lo scontro con una serie di rapidissimi flashback. E soprattutto, risultare irriverente e ironica.

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Giancarlo Esposito come Uncle Stan Crediti: Netflix

Per evitare spoiler, non vogliamo raccontarvi singole scene in cui Ritchie e i suoi autori fanno satira in mezzo alle sparatorie e alle torture. Ma tutta la serie ha un tono un po’ sovversivo. Vediamo criminali incalliti discutere di omicidi nello stesso linguaggio con cui un manager parlerebbe di un licenziamento in azienda. Assistiamo a crimini efferati per poter smerciare una droga che, in diversi Paesi, è perfettamente legale. E soprattutto, The Gentlemen dissacra la nobiltà: in ogni scena con lord e lady capiamo che “i nobili sono stati i primi gangster d’Inghilterra”. Anzi, i baroni e baronetti sembrano più umani quando si danno al narcotraffico di quando si limitano a godere dei propri possedimenti.

Queste considerazioni non fanno di The Gentlemen un’opera politica, né moralista. Ritchie, gli autori e gli attori si limitano a sfruttare questi contrasti per farci divertire. E ci riescono piuttosto bene. Se i primi episodi di The Gentlemen visti per scrivere questa recensione ci avevano un po’ tediato, guardare l’intera stagione ci ha ripagato dell’attesa.

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Kaya Scodelario come Susie Glass Crediti: Christopher Rafael/Netflix

Una volta ritrovato il ritmo, adattandolo per il piccolo schermo, la serie di Guy Ritchie mette a pieno frutto lo stile iconico del suo creatore. Non supera in qualità i migliori film del regista, ma crea un altro mondo criminale dove tutti hanno la battuta pronta e la pistola facile. E non potevamo chiedere di meglio.

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Stefano Regazzi

Il battere sulla tastiera è la mia musica preferita. Nel senso che adoro scrivere, non perché ho una playlist su Spotify intitolata "Rumori da laptop": amo la tecnologia, ma non fino a quel punto! Lettore accanito, Nerd da prima che andasse di moda.

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