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Quando Kim Jong-un ti obbliga a giocare ai videogame

Immaginate.
Un algido unicorno che cavalca leggero, lasciando tracce di fuoco su una candida distesa innevata.
Sulla sua nobile groppa, il fiero profilo di un eroe del popolo, terzo nel suo nome e nella gloria della sua dinastia, l'arma stretta in pugno e il cuore libero da ogni paura.
Signori e signore: Kim “Supremo Leader” Jong-un.
Bam!
Svenimenti, lettere minatorie, disiscrizioni e social hate.
Se a questo punto non vi si è ancora accesa la spia “sarcasm involved”, permettetemi di mettere le precedenti affermazioni nella giusta prospettiva.
Non è che sia un grande fan del pingue dittatore nordcoreano, proprio no. 
Sarà perché Kimmy, seppur dotato di un fantastico taglio di capelli (vi si dovrebbe essere riaccesa la spia), è probabilmente una delle persone peggiori sulla faccia della terra. 
No, la scena che vi ho descritto in apertura è tratta dai primi minuti del videogioco indie “Glorious Leader”, un pixel shooter a scorrimento che, salvo omicidi politici, dovrebbe vedere la luce nel 2015.
 In “Glorious Leader” ci troviamo a vestire gli inappuntabili panni dell'opulento dittatore coreano e del suo compagno di merende Dannis Rodman (sì, apparentemente sono veramente amiconi), impegnati in un'epica missione per sconfiggere Mr Obama e il suo impero del male. 
Gli ingredienti del successo (sebbene il gioco non stia esattamente mietendo milioni su Kickstarter) ci sono tutti: un prode eroe dotato di superpoteri divini, una quantità imbarazzante di nemici sullo schermo e una certa dose di controversie mediatiche pre-lancio.
Il gioco, in effetti, non è niente di che (occasionalmente divertente, ma niente di più), ma diciamolo, il tempismo è assolutamente perfetto, dato che il nostro paffuto Kimmy, dopo mesi di assenza dai palcoscenici internazionali, è tornato ad essere la star del web. Non tanto per il corposo disboscamento dei suoi archi soppracigliari (tanto rilevante da essere tra i primi 5 risultati googlando “Kim Jong-un”), quanto per le vicende legate al film di Seth Rogen: The Interview. 
Diamine, questo film è la più astuta opera di marketing acrobatico dai tempi di Steve Jobs.
Una commediola mediocre, benedetta dall'attacco hacking di un gruppo nordcoreano che, violando i server di Sony Pictures, ha trasformato la pellicola in un caso politico. 
Sony cala il capo davanti al terrorismo, il mondo si indigna, Obama sculaccia Kimmy che nega ogni coinvolgimento, mentre il film esce “per vie traverse” come un instant-cult interplanetario.
Assordante, contestualmente, il silenzio stampa del duo Rogen-Franco dopo l'annuncio della – momentanea – cancellazione del film, mentre le colonne del web tremavano per il sacro furore di Hollywood e dell'intero movie biz.
Bravi, ottima giocata.    
Lo ammetto però, l'intera vicenda ha titinnato le mie papille cinefile al punto da “costringermi” a guardare la pellicola e, contestualmente, rimpolpare le mie conoscenze sul paese del Supremo Leader Kim Jong-Un. Nelle 24 ore successive alla visione di The Inteview, ho sbomballato i miei lobi con una serie considerevole di nozioni riguardanti la storia recente della Corea del Nord, tramite la visione di una serie di documentari tematici (vi consiglio Camp 14: Total Control, veramente agghiacciante), e la lettura una quantità consistente di articoli e inchieste. 
Inutile dire che ne sono uscito malconcio, tremante e temporaneamente incapace di iniziare una frase con altro che “Lo sapevi che in Corea del Nord….”. 
Per la gioia di amici e benauguranti, aggiungerei.
A sentire le fonti ufficiali del regime (e non solo, purtroppo) la Corea del Nord è una sorta di Svizzera d'Oriente: pulita, ordinata, laboriosa.
Secondo questa tesi, la giornata tipo in Corea del Nord è un susseguirsi di ossequiose piacevolezze, in un clima sociale di patriottica abnegazione. 
Certo. 
R6yeyq
E magari sotto la capitale Pyongyang è sepolto veramente lo scheletro di un unicorno (una notizia diffusa veramente dall'agenzia di stato coreana nel 2012).
Parliamo di un luogo dove i cittadini non hanno alcun diritto, dove la menzogna di stato è l'unica verità e dove, se provi a espatriare o a esprimere una qualche forma di dissenso politico, vieni condannato a una “sentenza per tre generazioni”. Vuol dire che tu, la tua famiglia, i tuoi figli e i tuoi eventuali nipoti, vivrete e morirete in uno dei numerosi campi di concentramento del paese.
Lo sa bene Shin Dong-Hyuk, l'unico ad essere mai fuggito dal uno di questi gulag, dopo essere nato e cresciuto tra le mura del campo 14 (esperienze raccontate nel libro di Blaine Harden “Fuga dal Campo 14”), ed aver assistito alla morte della madre e del fratello, giustiziati per aver progettato di fuggire. 
La cosa peggiore?
Fu lo stesso Shin a denunciare i familiari, intrappolato tra gli artigli di un regime dove il solo sospetto di dissidenza può tradursi in una esecuzione sommaria. 
La Svizzera.
Certo.
È ampiamente documentato come il turismo e le visite ambasciatoriali in Corea del Nord siano limitate a uno stretto corridoio territoriale al centro del paese, opportunamente “addobbato” da paese dei balocchi, giusto per placare gli eventuali – e caldamente sconsigliati – sospetti dei visitatori. L'isoletta di Yanggak, posizionata nel cuore della capitale Pyongyang, è il centro nevralgico del turismo nazionale, e lo Yanggakdo International Hotel è il solo luogo in tutta la Corea del Nord (eccezion fatta, ovviamente, per le residenze governative) a non avere problemi di fornitura elettrica, idrica o riscaldamento.
Sembra quasi dietrologia.
Considerate che lungo il confine con la Corea del Sud, è situata la ridente cittadina di Kijong-dong, un villaggio fantasma costruito negli anni '50 come semplice strumento di propaganda, per mostrare ai cugini filo-americani quanto si stesse bene tra le verdi lande della Corea del Nord. Verdi ancora per poco, tra l'altro, visto che il paese, solo negli ultimi 15 anni, ha distrutto oltre il 40% del suo patrimonio boschivo, con conseguenze disastrose sulla fauna territoriale, prossima all'annientamento. Nel frattempo almeno 200.000 persone subiscono torture su base giornaliera, 10 milioni soffrono la fame (una carestia che ha già sterminato un decimo della popolazione nazionale) e il resto, bé, fa finta di niente, pena la morte (nel migliore dei casi). 
La Svizzera.
Tutta questa menata per esprimere un concetto molto semplice, esemplarmente in linea con il catalogo delle mie azioni post-The Interview.
Al di là dell'espediente – scusate il francese – paraculo della pellicola di Rogen, vale la massima wildiana "Bene o male, purché se ne parli".
E' giusto, corretto, accettabile costruire un prodotto d'intrattenimento – che sia un film, un videogioco o, che ne so, un maledetto reality show – su una vicenda tanto sanguinosa e orribile?
Forse no, ma in fondo va bene così. 
Se anche solo l'1% degli spettatori di The Interview approfondissero – come ho fatto io – le vicende reali dietro la parodia cinematografica, ecco che vedremmo emergere almeno qualche milione di coscienze scosse, in qualche modo, dalle crudeltà di un paese dove la quotidianità è tanto inconcepibile da risultare grottescamente risibile.
Un risultato mica male.
Il mio consiglio, quindi, è quello di guardare The Interview e, già che ci siete, spingervi un po' “oltre”, tenendo a mente che, a metà dell'800, uno dei motti del movimento anarchico francese (indegnamente adottato da Scary Movie) era “La fantasia distruggerà il potere e una risata vi seppellirà”.

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