Amedeo Balbi, nella vita, studia l’universo e ce lo racconta.
Detta in modo meno romantico, ma non meno interessante: fa l’astrofisico, insegna all’università di Roma Tor Vergata ed è autore di una serie di libri di divulgazione scientifica. L’ultimo di questi, “Dove sono tutti Quanti?” (Rizzoli, 2016) fa chiarezza sulle meraviglie e le difficoltà della ricerca della vita nell’universo. La persona perfetta da chiamare in causa dopo il recente annuncio della NASA, e tutta la confusione mediatica che ne è seguita.
Partiamo dall’aspetto cruciale che ha creato tanta discussione: la differenza fra il concetto di abitabilità per un astronomo, e ciò che viene in mente a chiunque quando si dice “abitabilità”. Cosa significa che un pianeta è potenzialmente abitabile?
È un punto che viene sempre fuori in queste occasioni. Ci sono due termini a cui stare attenti: “potenzialmente” e “abitabile”, sono entrambi importanti. Quando si parla di ricerca di esopianeti “abitabile” significa una cosa molto circoscritta. Un pianeta è nella fascia di abitabilità se si trova in un certo intervallo di distanze dalla sua stella. Tale intervallo è definito in base a un unico requisito, la temperatura. I pianeti in quella fascia hanno una temperatura tale che, se avessero una pressione pari a quella terrestre, e se avessero acqua, essa si troverebbe allo stato liquido. Si definisce quindi un intervallo di distanze, e si può capire se un pianeta vi rientra o meno, ma questo requisito trascura tutta una serie di altri fattori.
Abbiamo appena detto che assumiamo di avere una pressione pari a 1 atm, cioè una atmosfera esattamente pari a quella terrestre, ma non è nemmeno detto che questi pianeti ce l’abbiano un’atmosfera. Quindi si definisce un intervallo come una sorta di prima approssimazione. Resta ancora da capire come stiano veramente le cose.
L’altro termine è “potenzialmente”. Il fatto che si dica “potenzialmente abitabile” vuol dire che, anche qualora avesse un atmosfera e acqua allo stato liquido, non significa che il pianeta sia abitabile nel senso comune del termine. Perché lo sia devono essere soddisfatte tutta una serie di altre condizioni, che peraltro non sappiamo nemmeno definire bene. Capire quali sono le caratteristiche che rendono la Terra un pianeta abitabile, cioè un pianeta dove la vita può essere apparsa ed essere rimasta per quattro miliardi di anni, è una cosa complicatissima. Non sappiamo veramente dire quali sono i fattori indispensabili per l’abitabilità.
Quindi gli astronomi, per abitabilità, intendono una cosa molto basilare: se ci fosse dell’acqua potrebbe trovarsi allo stato liquido. E questo non è un “se” da poco. Noi non sappiamo se veramente c’è l’acqua.
Quindi fondamentalmente, di questi nuovi pianeti, sappiamo solo che sono nella fascia abitabile o abbiamo altre informazioni, ad esempio indizi sul fatto che potrebbe esserci acqua?
No, in questo momento sappiamo soltanto che alcuni di loro si trovano nella fascia abitabile. Fra l’altro questa cosa possiamo illustrarla con un esempio che risulta un po’ più familiare: il sistema solare. Se un astronomo vedesse il sistema solare da lontano, come noi abbiamo fatto con questi pianeti di TRAPPIST, a una prima analisi direbbe: ci sono 4 pianeti rocciosi, 3 di questi nella fascia di abitabilità, perché secondo la definizione sia Venere che Marte si trovano nella fascia di abitabilità del Sistema Solare. Noi che invece li abbiamo visti da vicino sappiamo che di questi l’unico veramente abitabile è la Terra. Quindi, tornando a TRAPPIST, ce ne sono tre nella fascia di abitabilità, e hanno un raggio simile a quello terrestre. Non sappiamo nemmeno la massa al momento. Possiamo fare una stima data dai modelli che abbiamo, e dalle statistiche sugli altri pianeti che sono stati scoperti. Sappiamo che quando un pianeta ha quel raggio molto probabilmente è un pianeta roccioso, soprattutto se si trova vicino alla stella. Non abbiamo altro.
Ma allora, la domanda tipica che potrebbe venire in mente è: se non possiamo andarci, almeno con le tecnologie di oggi, e se abitabilità per ora vuol dire qualcosa di molto vago, perché è importante lo studio di questo sistema planetario? Come può aiutarci nella ricerca? Ci può ad esempio aiutare a capire delle cose sul nostro sistema solare?
Sì, indubbiamente ci può aiutare a capire molte cose, e ci sono diverse ragioni per questo. La prima ragione è che TRAPPIST-1 è un sistema relativamente vicino a noi, e quindi tutta una serie di tecniche che possiamo utilizzare per studiarlo sono relativamente facilitate. Tecniche per ora teoriche, che vogliamo utilizzare nei prossimi anni per capire qualcosa di più sui pianeti di TRAPPIST-1, in primis l’atmosfera.
Hai un pianeta extrasolare che non puoi visitare direttamente, e di cui non hai immagini dirette, come fai a capire se ha un'atmosfera? Con la stessa tecnica che abbiamo usato per dedurre che c’era un pianeta, ovvero il transito davanti alla sua stella. Li abbiamo scoperti perché passano davanti alla loro stella, e ne oscurano una porzione di luce. Analogamente, quando il pianeta transita, se ha un’atmosfera, una parte della luce della stella attraverserà l’atmosfera del pianeta e arriverà ai nostri strumenti “modificata”, per via di fenomeni fisici un po’ complessi. Possiamo studiare queste modifiche attraverso lo spettro della stella. Sappiamo che questa tecnica funziona, è spettroscopia di base, che gli astronomi usano in continuazione. Praticamente tutto quello che sappiamo sull’universo deriva dalla spettroscopia. Abbiamo già adottato questo sistema con alcuni pianeti extrasolari, ma erano tutti pianeti giganti molto caldi e fatti esclusivamente di gas. Quindi a) la presenza di molto gas facilita questi processi, c’è una probabilità maggiore che la luce passando venga modificata e b) essendo molto caldi hanno linee spettrali più intense. Quello che abbiamo fatto sin’ora era sostanzialmente il caso semplice. Invece i pianeti rocciosi, pur supponendo che abbiano un atmosfera, ne hanno uno strato sottilissimo. Anche quella terrestre, che a noi sembra enorme, è in realtà un piccolissimo strato se vista da lontano. Quindi sperare di analizzare la porzione di luce che transita attraverso uno strato così sottile è veramente complicato, e non è ancora stato fatto con successo. Un sistema come questo, in cui ce ne sono ben 7, e relativamente vicini a noi, potrebbe essere l’occasione giusta.
Quindi lo studio di questi pianeti ci aiuterà ad affinare delle tecniche osservative?
Esatto, e testare dei modelli teorici. Per esempio: qual è la composizione dell’atmosfera di un pianeta terrestre? Non sono cose che uno sa a priori. Ci sono dei modelli, una nebulosa planetaria dovrebbe essere fatta in un certo modo, i modelli di accrescimento dei pianeti ci danno delle informazioni, e deduciamo che alcuni gas potrebbero essere intrappolati più facilmente a certe temperature, quindi dominare la composizione dell’atmosfera. Ma sono tutti modelli, da testare, dobbiamo trovare tanti casi e vedere sperimentalmente se le cose funzionano davvero così. Persino nel caso del Sistema Solare, che abbiamo sotto il naso, non è semplicissimo capire come si è formato, come sono andate certe cose. Anzi, molte teorie sono state rimesse in discussione proprio perché gli esopianeti scoperti in questi anni avevano caratteristiche diverse da quello che ci saremmo aspettati.
Cliccate qui per seconda parte dell'intervista ad Amedeo Balbi: parliamo di vita, dei progressi della ricerca, e dei prossimi step per scoprire qualcosa in più su questi nuovi esopianeti.
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