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Il sonetto XIX

Nulla, non provava più nulla.
O almeno era quello che tentava di ripetersi, per cercare di convincersi che fosse vero.  In realtà avrebbe voluto strapparsi il cuore e lanciarlo lontano dal corpo per non sentire più quel dolore che esplodeva nel petto e si irradiava poi in tutti i muscoli, lasciandola spossata. Provava contemporaneamente un quantitativo di emozioni tale da sbalordirla: così tante per una sola persona che quasi faticava a respirare.
Odiava se stessa per come aveva reagito e odiava lui per come l'aveva messa alle strette, portandola a dire frasi che mai avrebbe voluto pronunciare. E tutti quei pianti.. Dio quanto la cosa la faceva imbestialire! 
In quel momento, a distanza di mesi, ancora stringeva le dita a pugno quasi in automatico, in un misero tentativo di rivalsa postuma. Per certi versi le pareva di aver fatto lo stesso errore, ancora e ancora, senza riuscire a smettere, lottare tutto quel tempo per tentare di sistemare una situazione che non valeva la pena di essere aggiustata. Si era aggrappata a un momento e non aveva voluto abbandonarlo, nonostante le mordesse l'anima come un cane randagio affamato.
Un uomo smilzo vestito di tutto punto le venne addosso, urtandole la spalla. Il giornale sporco d'inchiostro appena acquistato all'edicola gli cadde e guardò male lei, lei che stava solo cercando di  camminare  ammantata dei suoi pensieri come fossero una cappa che la divideva dal mondo.
Il problema con i pensieri e con i ricordi è che non si consumano mai, all'inizio sembra che si facciano più sottili tanto da mischiarsi gli uni con gli altri ma poi, magari dopo una giornata o una notte che li si ha messi da parte, tornano concreti quanto erano all'inizio. Ti si attaccano addosso e non sai più come liberartene, allo stesso tempo però non vuoi liberartene perché hai il dubbio che ti tengano in moto, viva.
Mentre camminava in mezzo alla gente, nella grigia città affollata, era arrivata alla conclusione che siamo tutti un pò masochisti, abbiamo paura del dolore e della sofferenza, ma non riusciamo a tirarci indietro neanche quando sappiamo benissimo che stiamo andando a cacciarci in una situazione che porterà conseguenze spiacevoli. Semplicemente non possiamo farne a meno, ne abbiamo bisogno, chi più chi meno. È una specie di circolo vizioso.
Quella mattina era uscita di casa con la sensazione di essere alla ricerca di qualcosa, aveva vagato per le vie superando edifici, palazzi e macchine e persone, quasi senza vederle. Ed ora all'improvviso la realtà tornava a schiaffeggiarla, per colpa di un giornale caduto e di uno sguardo storto. L'uomo se ne andò, lasciandola sola nel mondo, di nuovo. Pareva ci fosse sempre qualcuno disposto a lasciarla sola.
Si accorse di trovarsi davanti ad una caffetteria appena aperta, dall'aria tanto linda quanto fuori posto. Decise di entrare visto che era praticamente deserta: c'era solo un'altra cliente oltre a lei. 
Il piano dei tavolini in plastica dura, trasparente, poggiava su sottili gambe d'acciaio lucido, le sedie erano ruvide, dallo schienale alto, gialle rosse e fucsia. Ordinò un cappuccino chiaro e una brioche con la marmellata di lamponi; i cinque euro che lasciò cadere sul bancone erano tutti accartocciati e dai bordi consumati. La proprietaria non fece storie.
Accompagnata dal rumore delle monete che le aveva dato di resto e da una vecchia canzone di Bon Jovi – Bad Medicine?–  andò a prendere posto.  Per terra, accanto al tavolino che dava sulla vetrata che a sua volta dava sulla strada, c'era un libro consumato quanto la banconota con cui aveva appena pagato. Era una raccolta di sonetti d'amore, di Shakespeare. Il destino pareva farsi beffe di lei! Con gli occhi immediatamente cercò un cestino, per poter gettare il volume che aveva tra le mani, per liberarsi di una stopposa e insopportabile dose di inutile romanticismo.
“Dallo a me, se non vuoi tenerlo né lasciarlo dove l'hai trovato. Non si dovrebbe mai gettare un libro”. La giovane focalizzò la sua attenzione sull'unica altra cliente: era una ragazza circa della sua stessa età, portava una giacca di pelle rossa, tacchi impossibili e aveva un volto da bambina. Le sorrise con labbra scarlatte mentre le sue dita coperte di anelli stringevano un'enorme tazza bianca di caffè fumante.
“Io… Io..” agitò il libro nell'aria, senza riuscire a dare un ordine ai suoi pensieri. 
“Sì neanch'io posso soffrire l'inutile passione del Bardo. Puoi sempre riempire le pagine di commenti acidi e dimenticartelo su qualche tavolo, perchè altri leggano”. Scrollò le spalle e i grossi orecchini di metallo che portava tintinnarono piacevolmente.
Nel frattempo la cameriera si era avvicinata e aveva lasciato l'ordinazione al tavolo, credendole conoscenti incontratesi per fare colazione. 
Anche la ragazza scrollò le spalle, si sedette e presero a parlare come vecchie amiche che si ritrovavano dopo tanto tempo. 
E forse davvero si stavano aiutando a vicenda, a ritrovarsi.
“Devouring Time, blunt thou the lion's paws,
And make the earth devour her own sweet brood;
Pluck the keen teeth from the fierce tiger's jaws,
And burn the long-liv'd phoenix, in her blood;
Make glad and sorry seasons as thou fleets,
And do whate'er thou wilt, swift-footed Time,
To the wide world and all her fading sweets;
But I forbid thee one most heinous crime:
O! carve not with thy hours my love's fair brow,
Nor draw no lines there with thine antique pen;
Him in thy course untainted do allow
For beauty's pattern to succeeding men.
    Yet, do thy worst old Time: despite thy wrong,
    My love shall in my verse ever live young.”

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