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Il Corvo: quando “l’aesthetic social” conta più della sostanza

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Se il 28 agosto avete del tempo da perdere, vi ricordiamo che al cinema arriva Il Corvo di Rupert Sanders, una nuova trasposizione, reboot/non reboot, del cult a fumetti di James O’Barr. Nel 1994, Alex Proyas ci aveva già regalato una delle opere più significative del cinema gotico e della cultura underground di fine anni ’80/inizio anni ’90, con un immortale Brandon Lee nei panni del tormentato e vendicativo Eric Draven.

Fu un vero e proprio film generazionale che ha segnato e consolidato un immaginario che ancora oggi vive nell’animo di chi quegli anni li ha vissuti davvero (e non solo). In questa recensione de Il Corvo proviamo a spiegarvi perché il film di Sanders non solo è lontano anni luce da quel tipo di intento – sebbene sia evidente che l’obiettivo fosse proprio quello di creare la versione Gen Z de Il Corvo – ma è anche un film privo di anima, completamente patinato e vittima della “struttura algoritmo” tanto in voga, il cui scopo è solo quello di creare una nuova, infinita scuderia di sequel senza sostanza.

Il Corvo: storia di un “dark romance” che non ci meritavamo

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Il regista Rupert Sanders sposta la storia de Il Corvo ai giorni nostri; fin qui nulla di strano. Lo stesso Proyas dava inizio alla sua ballata gotica e infernale ai suoi giorni. La famigerata Devil’s Night, ve la ricordate? Spero di sì, perché in questa versione non viene affatto considerata; anzi, tutto ciò che concerne il malessere e la tossicità insita nella città non esiste.

Mentre la Los Angeles di Proyas trasudava oscurità e la contaminazione di una società perversa e malata, malvagia a tal punto che perfino Lucifero in persona avrebbe avuto ribrezzo ad avvicinarsi, avvolta in un’atmosfera plumbea e costantemente bagnata da una pioggia torrenziale, simbolo delle lacrime costantemente versate dagli innocenti mietuti dalle mani dei più avidi e perversi, la città di Sanders è una come tante. Quasi una città-cartolina, illuminata a giorno anche nelle ore notturne, presentando fin da subito una fotografia patinata, costantemente sotto effetto “filtro preconfezionato” Instagram (e non è neanche la cosa peggiore). Vogliamo essere cattivi? La Forks di Twilight a confronto è OSCURA.

Tornando a noi, prima che la storia possa davvero partire, questa versione aggiornata e “ben confezionata” con tanto di confezione regalo piena di glitter, decide di insistere su delle pseudo-backstory dei protagonisti Eric (Skarsgård) e Shelly (FKA twigs) per poi dilungarsi per oltre quaranta minuti su quella che a tutti gli effetti è una commedia romantica basata su una relazione tossica.

Una regia svogliata e priva di qualsiasi stile

Il modello “noi contro tutti” è infarcito di tutti quei tropes tanto amati dal lettore medio di Wattpad. Certo, la piattaforma ha talvolta sfornato casi editoriali da milioni di copie, ma si sa: quantità non è sempre sinonimo di qualità. E comunque, sulla futura “quantità” di incassi di questa pellicola abbiamo i nostri dubbi, ma questo ce lo potrà confermare solo il tempo.

Nel momento in cui la storia parte, se non vi foste ancora addormentati a causa di un ritmo snervante, trascinato e per lo più dominato da un montaggio “emotional” fatto con CapCut, o da un insieme di frasi fatte smielate che potrebbero farci rivalutare l’utilizzo dell’intelligenza artificiale per scrivere le sceneggiature, una regia svogliata e priva di qualsiasi stile e una costruzione della tensione non pervenuta, sappiate che il film comincia ad avere ancora meno senso.

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Il nostro “Corvo”, che in questa versione, nonostante si provi a dare una mitologia (apparentemente interessante ma per nulla sviluppata) di “purgatorio, inferno e paradiso”, si decide di recidere la sua simbiosi con l’animale che l’ha riportato in vita (WTF), svuotandolo di tutta la sua simbologia. Si prende così tanto tempo per abbracciare la propria missione da ridurre l’azione vera e propria agli ultimi quindici minuti di film, scontrandosi con uno dei villain più piatti mai visti negli ultimi tempi (con buona pace per Danny Huston, il quale probabilmente era a corto di contanti). E insomma, la Marvel di “cattivi falliti” ne ha sfornati un bel po’ in questi anni!

Quando l’apparenza è più forte della sostanza

Eric e Shelly sono due bimbi sperduti, abusati a loro modo dalla società, dipendenti dalle sostanze, ultimi tra gli ultimi, che si ritrovano e si riconoscono nel proprio dolore. In realtà, a ben pensarci, questo ha un senso, pensando all’opera di O’Barr. Proyas ne dava una visione ben più matura, ma al tempo stesso anche più brutale.

Eric e Shelly ne Il Corvo del 1994 erano delle mosche bianche, schiacciate anche per la loro fame di speranza, per il bisogno di cambiare qualcosa, puniti per la purezza del loro amore (o quasi). La loro storia d’amore la vivevamo in piccoli crudeli bocconi, per alimentare la disperazione di un personaggio completamente distrutto dal dolore, riportato in vita dal senso di ingiustizia che a volte vige tra un mondo e l’altro, lasciando che un corvo conduca l’anima prescelta designata a fare giustizia.

Soprattutto, il film di Proyas cominciava fin da subito con la violenza più assoluta, nell’atto più drammatico e feroce, lasciandoci vivere per tutto il film la sete di vendetta di Eric, la sua follia dettata dalla solitudine e dal tormento, dal disperato bisogno di pace e di potersi ricongiungere con l’amata che non ha potuto difendere in vita.

Rupert Sanders, che dopo Ghost in the Shell si era già dimostrato un “abile maestro” di film tutto guscio e poca anima, opta per il mood da videoclip nell’epoca di TikTok, svalorizzando l’importanza che l’unione di questi due protagonisti poteva effettivamente darci. Appesantisce la visione con questa storia d’amore “sbagliata” e ai margini, come se fosse un video di Calvin Klein o, come già detto, un edit di TikTok fatto da qualche fan appassionato di un libro o un film.

Non c’è nulla di sporco, grezzo e cattivo

Non c’è quel senso di rappresentazione in cui potersi rispecchiare, bensì si punta più a idealizzare la relazione tossica, tanto con gli altri quanto con se stessi. La maniacale esigenza di rendere tutto “so cool”, appetibile, iperdefinito, perfetto, dagli angoli smussati, al makeup impeccabile e ai vestiti alla moda. Perfino la violenza è coreografata a tal punto da non essere credibile.

Non c’è nulla di sporco, grezzo e cattivo. La musica che accompagna la visione è completamente decontestualizzata, proprio come in un reel. Per quanto l’intento possa essere quello di dare a questa generazione il suo Corvo, ci chiediamo: ma davvero questa generazione si sente rappresentata da questo Corvo?

L’Eric Draven di Bill Skarsgård – un attore che sa il fatto suo e più volte ci ha dimostrato di essere un grande performer – riesce a farci rivalutare le interpretazioni di Vincent Pérez (Il Corvo 2 – The Crow: City of Angels), Eric Mabius (Il Corvo 3 – The Crow: Salvation) e quasi, ma solo quasi, quella di Edward Furlong (Il Corvo 4 – The Crow: Wicked Prayer). Comprendiamo che queste siano parole forti, ma in realtà la colpa è di un’interpretazione vittima di una scrittura scialba e sconclusionata.

Un personaggio indeciso e fragile fin da subito, vittima degli altri, che deve arrivare a rompere sé stesso prima di riuscire davvero ad accettare di essere un carnefice, accettare la sua nuova natura, arrivando a corrompersi fino a un punto di non ritorno. Sicuramente una visione interessante e che si sposa con l’universo di O’Barr, ma che non riesce a trovare ampio respiro a causa di una caratterizzazione estremamente abbozzata e banale.

Li vediamo muoversi sullo schermo senza uno scopo reale

Un vero arco di trasformazione, questo personaggio non ce l’ha mai. Sembra procedere più per tentoni che per veri e propri intenti, un po’ come l’intero film. Il motivo è sempre lo stesso: apparire senza dare nulla in cambio. Un po’ come per la Shelly di FKA twigs, la quale ha sicuramente una presenza scenica a livello di minutaggio molto più importante rispetto a quella di Sofia Shinas, eppure non riesce a raggiungere la metà del suo carisma.

Lo sguardo perso nel vuoto. L’espressione vacua da modello d’alta moda. Il distacco dal personaggio stesso, dal sentimento, dalla storia. Il problema è che nessuno crede a questa storia d’amore, neanche i diretti interessati. Li vediamo muoversi sullo schermo senza uno scopo reale, esattamente come questo film stesso.

Tutta mera estetica con una colonna sonora che non racconta nulla, senza un senso logico. Canzoni incollate alle immagini proprio come in un montaggio da social. Tutta apparenza, nessuna sostanza.

Il Corvo: un’operazione che non ha senso di esistere

Qual è il senso di questa operazione? Riesumare per l’ennesima volta un franchise che già all’epoca non aveva funzionato, eccezion fatta per la prima pellicola del 1994?

Il Corvo di Rupert Sanders si rivela essere un’operazione di pura superficie, un tentativo di modernizzare un classico senza riuscire a coglierne l’essenza. La pellicola fallisce nel trasmettere il tormento e la disperazione che hanno reso l’originale un cult, preferendo concentrarsi su una confezione patinata e su una narrazione frammentata.

La scelta di trasformare una storia di vendetta e redenzione in un prodotto “Instagrammabile” privo di sostanza non solo delude i fan della prima ora, ma lascia anche indifferente un pubblico più giovane che probabilmente non troverà in questa versione de Il Corvo un’icona con cui identificarsi.

In conclusione di questa recensione di Il Corvo, parliamo di un film che sacrifica la profondità per l’apparenza, proponendo un’estetica accattivante ma vuota, che non riesce a compensare la mancanza di un’anima narrativa. Ciò che rimane è un’opera che, seppur visivamente curata, manca di quel fervore emozionale che rendeva l’originale un’esperienza indimenticabile.

Più che un tributo o un reboot, sembra un tentativo malriuscito di cavalcare l’onda della nostalgia, senza offrire nulla di nuovo o significativo. Un’occasione sprecata, che lascia il desiderio di rivedere l’Eric Draven di Brandon Lee, l’unico vero Corvo che abbia mai spiccato il volo.

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  • O'Barr, James (Autore)
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