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The Grand Budapest Hotel: cinema e poesia

Wes Anderson è tornato in piena forma, dopo il suo ultimo capolavoro (stiamo parlando di Moonrise Kingdom) si siede di nuovo dietro la macchina da presa per tirare le redini di The Grand Budapest Hotel, la sua opera più malinconica.
La vicenda, apparentemente, è quella di uno scrittore che ha riportato su carta la vita di Zero Moustafa: Lobby Boy del Grand Budapest Hotel e successivamente suo proprietario.
Diciamo apparentemente perché ci ritroveremo catapultati nei ricordi di gioventù di Zero e della sua avventura con Monsieur Gustave (Ralph Fiennes) il concierge del Grand Budapest Hotel nel 1930 accusato ingiustamente di omicidio di una ricca ereditiera.
Tra le abitudini di Monsier Gustave c'è infatti quella di intrattenere ricche e attempate ereditiere e quando la sua preferita Madame D. (Tilda Swinton) passa a miglior vita, Gustave e Zero dovranno lottare per la propria incolumità braccati dalle autorità e dai figli affamati di denaro che hanno ordito il complotto.
La vicenda, molto più semplice di quello che sembra, è raccontata e si sviluppa su tre piani narrativi collocati in altrettanti piani temporali e rappresentata in tre diversi formati cinematografici: 1.33, 1.85 e 2.35 secondo queste linee temporali.
In realtà i piani di suddivisione però, a voler osservare bene, saranno effettivamente quattro ma solo guardando la pellicola con attenzione potrete comprendere a pieno questa nostra frase. Questa è una piccola sfida.
Anderson confeziona una pellicola molto differente dalle precedenti a un occhio attento, mentre lo stile espositivo e la narrazione (interna ai piani) rimane pressoché intatta rispetto al suo classico e romantico stile, i fatti narrati e il messaggio ultimo dell'opera sono profondamente diversi rispetto al suo passato.
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The Grand Budapest Hotel infatti ci regala attimi particolarmente malinconici e aridi (ma non per questo non ricolmi di poetico significato) e anche scene che, in mano a Anderson, non avevamo mai visto trattare in maniera tanto esplicita, come ad esempio quelle inerenti alla sessualità.
L'esempio più calzante è che nonostante l'estrema classe che trasuda dal personaggio di Gustave esso si lascerà andare a uscite molto spiazzanti legate al lessico, un turpiloquio spiccio, rivelando una natura molto pratica e  un passato molto più simile a quello del suo Lobby Boy di quello che vuole lasciare a intendere con la sua maschera.
Tali uscite, ne abbiamo avuto prova in sala, saranno gli unici spunti che lo spettatore medio troverà divertenti e alle quali riderà, troviamo però che si dovrebbe andare oltre e osservare le motivazioni che hanno portato il regista, per la prima volta, a intraprendere una strada tanto differente per raccontare un personaggio invece di ridere sguaiatamente per la parola “cacca”. In particolare visto la serietà dell'opera.
Proprio come in Moonrise Kindom, il cast monumentale è presente, anzi, si allarga ulteriormente con gli inarrivabili nomi di: Ralph Fiennes, Saoirse Ronan, Tony Revolori, Jude Law, Owen Wilson, Tilda Swinton, Willem Dafoe, F. Murray Abraham, Adrien Brody, Léa Seydoux, Edward Norton, Harvey Keitel, Tom Wilkinson, Bob Balaban, Florian Lukas, Mathieu Amalric, Jeff Goldblum, Jason Schwartzman e, ovviamente, Bill Murray.
Il regista riesce a orchestrare una sonata epica dove ciascuno di questi attori ha un ruolo, uno strumento che non sovrasta gli altri, anzi si congiunge nella melodia per creare un singolare valzer che stupisce e ammalia.
Non è l'opera più profonda o più grande di Anderson (quella rimane ancora The Life Aquatic) ma risulta coerente e di spessore e appassionante. Anderson è ancora in grado di creare dal nulla eroi improbabili, tragici e cosparsi di un'aura eterea senza tempo.
Il nostro consiglio è quello di precipitarvi al cinema e aprire il cuore a questo piccolo e malinconico capolavoro.
Un “Ragazzo con Mela” da tenere sempre appeso sopra il camino.

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