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Asteroid City non ha senso. E questo è il punto | Recensione

Il film si interroga sul senso dell'esistenza, ma lo fa attraverso mille filtri narrativi

Il protagonista Jason Schwartzman dice di non capire il suo ruolo nella produzione e il finto regista Adrien Brody risponde non importa, purché continui a recitare”. Questo scambio di battute introduce la sequenza più forte e riassume in poche parole Asteroid City, il film di Wes Anderson di cui ci troviamo a fare una recensione sicuri di non averlo capito. Ma siamo anche certi che sia esattamente quello che voleva il regista texano, che con quelle battute di Schwartzman vuole dirci che non ha niente da dire, perché non c’è niente da dire. Un film esistenzialista e pieno di meta-testo, che travolge con il suo formalismo e i suoi mille camei. Ma che mette troppi filtri narrativi per riuscire a emozionarci – se non per un solo esplosivo momento.

La nostra recensione di Asteroid City

Wes Anderson ha uno stile unico, tanto riconoscibile che su TikTok spopolano i video in cui gli utenti cercando di Andersonizzare la propria vita e tantissimi hanno provato a chiedere alle AI generative di creare personaggi di altri film (dal Signore degli Anelli al Padrino) come se fossero diretti da lui. Ogni immagine di Asteroid City conferma che Anderson adora la simmetria e i colori pastello.

Ma questa estetica non è la sua voce, non bastano due abiti da hipster a fare il regista. Quello che i fan adorano e che i suoi critici detestano è la capacità di Anderson di nascondere le emozioni sotto strati e strati di narrazione. Gli attori parlano con un tono solo, le telecamere si muovono con una coreografia minuziosa: lo spazio per sentire il dolore e la gioia dei personaggi traspare solo dalle storie che raccontano. Qualcosa che a volte funziona alla grande, come nell’acclamato Gran Budapest Hotel. Ma che spesso risulta difficile da capire.

Asteroid City porta questa tendenza all’estremo, tanto che guardando i commenti del Festival di Cannes per ogni recensione entusiasta ne abbiamo letta una profondamente delusa. Noi capiamo entrambe le posizioni. Per due dei tre atti del film abbiamo alzato le sopracciglia rigirandoci nella poltrona del cinema: nessuna emozione vera da guardare sullo schermo. Ma il finale ci ha sorpreso con un impeto inaspettato e potente di quell’ondata di significato che va oltre la logica, che solo il grande cinema può regalare. Per poi deluderci ancora con un epilogo vuoto, come se il film non si fosse accorto di essere finito.

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Ma la cosa più interessante è che siamo (quasi) certi che Anderson fosse consapevole di tutto questo.

SPOILER ALERT: Pur evitando spoiler importanti sulla trama, dobbiamo parlare di alcuni dettagli del finale del film

Troppi filtri sulla realtà

Il film comincia con un presentatore (Bryan Cranston), che ci mostra un documentario in bianco e nero su una produzione teatrale. L’opera, scritta da Conrad Earp (Edward Norton) e diretta da Schubert Green (Adrien Brody), si chiama Asteroid City e noi la vediamo a colori, come trama principale di questo film dai mille livelli narrativi.

Il protagonista è Augie Steenbeck (Jason Schwartzman), fresco vedovo, la cui auto si rompe mentre porta il figlio Woodrow Steenbeck (Jake Ryan) insieme alle tre figlie al raduno per gli Young Stargazer, un gruppo di giovani geni che si ritrova ad Asteroid City a presentare i propri progetti scientifici. Oltre ai ragazzi, ci sono l’attrice Midge Campbell (Scarlett Johansson) e gli altri genitori. Ma anche il generale Grif Gibson (Jeffrey Wright) e la dottoressa Hickenlooper (Tilda Swinton) come rappresentati del governo, che premierà il progetto migliore.

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Ci sono anche i vari Tom Hanks, Liev Schreiber, Steve Carell, Maya Hawke e Sophia Lillis, per dimostrare che Anderson riesce a convincere sia attori da Oscar che giovani promesse a non fare assolutamente niente. O meglio, a riempire qualche scena più o meno divertente fino a quando non arriva un alieno a prendersi l’asteroide caduto ad Asteroid City.

Mentre tutto il campus finisce sotto quarantena, vediamo in bianco e nero il “making of” della produzione teatrale con la narrazione di Cranston. Con gli attori che incontriamo a colori (Johansson per esempio è l’attrice Mercedes Ford che scappa dalla produzione), ma anche nuovi personaggi come il maestro di recitazione Willem Dafoe.

Solo dieci minuti di emozioni

Durante il corso del film, vediamo i ragazzi geniali diventare amici fra loro e svelare al mondo intero dell’arrivo dell’alieno. Osserviamo i genitori ribellarsi, anche usando le invenzioni dei figli per provare a fuggire. Guardiamo Steve Carell vendere terreni e Tom Hanks provarci goffamente con qualsiasi donna sul set, in un ruolo che sembra scritto per l’amico di Anderson Bill Murray più che per il due volte premio Oscar.

Vediamo anche Schwartzman e Johansson sedursi a distanza, dalle rispettive finestre dei propri bungalow. Una rappresentazione perfetta del fatto che siano entrambi troppo traumatizzati dalla vita per far avvicinare qualcun altro. Ma che non possono farne a meno. Peccato che i personaggi dicano, più o meno, proprio queste parole – come se Anderson non si fidasse del fatto che noi del pubblico potessimo capirlo da soli.

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La sceneggiatura troppo esplicita e i movimenti di camera esagerati ci ricordano sempre che stiamo guardando un film su una trasmissione televisiva che parla di un’opera teatrale. Il narratore di Cranston entra per sbaglio in una scena, ogni dieci minuti vediamo una grafica che ci dice in che atto e in che scena siamo.

Se in altri suoi film la consapevolezza e la tecnica di Anderson ci hanno deliziato, in Asteroid City ci hanno infastidito: se fossimo usciti dal cinema prima dell’atto finale avremmo scritto una recensione decisamente più negativa. Ma poi succede un fatto inaspettato nell’opera teatrale, tanto strano che persino il suo attore principale resta interdetto.

Significato senza senso

Schwartzman dice di non capire il ruolo. Brody risponde che lo sta facendo bene e che deve continuare a farlo. L’attore deve prendere un po’ di fiato e, in bianco e nero, esce sulla scala antincendio del teatro. E li incontra Margot Robbie.

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Non c’è bisogno di raccontarvi cosa si dicono o che ruolo ha l’attrice. Vi basti sapere che, anche se restano distanti fisicamente come nelle scene fra l’attore e Johansson, questa volta l’emozione fra i due l’abbiamo sentita. Non per meriti di un’attrice e meriti dell’altra, ma perché sembra che finalmente Anderson li lasci esprimere le emozioni appieno.

L’attore continua a non capire il suo ruolo, ma capisce che non serve saperlo finché si recita con qualcuno. E in una serie di inquadrature da espressionismo tedesco l’intero cast ripete un mantra che non ha senso, ma in qualche modo ha un significato. Non sappiamo spiegarvi perché, ma funziona.

Recensione di Asteroid City: colmare le distanze siderali

In quella scena, per la prima volta durante il film, abbiamo capito. Tutti quegli strati di meta-narrativa che Anderson ha messo in questo film non servivano per separarci dalle emozioni, ma per rendere ancora più gratificante colmare questa distanza. Nessuno ha capito il proprio ruolo, ma se continuiamo a recitare insieme forse lo spettacolo varrà la pena.

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O perlomeno, crediamo di aver capito. Perché subito dopo questo momento in cui abbiamo sentito di capire quello che il film voleva dirci, siamo tornati ad annoiarci con un epilogo che aveva tutti i difetti dei della prima ora e mezza.

Cerebrale e colorato a pastello, Asteroid City potrebbe essere sia il film più distaccato che il più viscerale di Wes Anderson. Oppure può darsi che, dopo un’ora senza sentire nulla, un senso ce l’abbiamo messo dentro noi per forza. Il film uscirà nelle sale il 14 settembre 2023: se trovate un significato intenso che ci è sfuggito o se volete rimproverarci per non averlo capito, scriveteci nei commenti.

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Stefano Regazzi

Il battere sulla tastiera è la mia musica preferita. Nel senso che adoro scrivere, non perché ho una playlist su Spotify intitolata "Rumori da laptop": amo la tecnologia, ma non fino a quel punto! Lettore accanito, Nerd da prima che andasse di moda.

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